Il caso di due detenuti
Carceri, sul 41 Bis la Cedu all’Italia: “Ma non starete torturando i detenuti?”
La Corte europea dei diritti umani sul caso di due reclusi al carcere duro dal ‘97: “ci sono ragioni valide per l’estensione del regime speciale?”. Le avvocate: “Dignità annichilita”
Giustizia - di Angela Stella
“I ricorrenti sono stati sottoposti ad un trattamento vietato dall’articolo 3 (Proibizione della tortura – Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti, ndr) della Convenzione a causa dell’applicazione prolungata delle restrizioni del regime carcerario speciale del 41 bis?”: è questa la domanda che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha posto al Governo italiano a seguito del ricorso presentato da due detenuti al regime speciale.
In particolare, si chiede all’Italia se “le autorità nazionali abbiano fornito ragioni adeguate per giustificare l’estensione dell’applicazione del regime carcerario speciale” ed è stata invitata a fornire tutti i relativi documenti giustificativi entro il 7 maggio.
I ricorsi sono stati presentati dagli avvocati Maria Brucale e Antonella Mascia. Come ci spiega in particolare Brucale, il cui assistito è al 41 bis dal 1997, “la misura afflittiva non era più giustificabile, alla luce dei parametri normativi, per un soggetto che con la propria condotta detentiva mantenuta per un ventennio aveva palesato un intento – ben rappresentato dalle relazioni comportamentali redatte dall’area educativa del carcere – costante e mai smentito di presa di distanza da qualsivoglia consesso di malaffare; un proposito solido di crescita personale nutrito dagli studi e dalle relazioni con una famiglia specchiata e mai attinta da sospetti di connivenza con il consesso associativo; aveva espresso, dunque, indici importanti e valutabili che si ponevano ad arricchire il “mero” fattore tempo di elementi specifici che descrivono la soggettività del detenuto e chiariscono come non sia più sussistente il rischio che, ove non più ristretto in regime derogatorio, possa riallacciare i contatti con il clan di originaria appartenenza”.
L’avvocato nel ricorso ha sottolineato come “la carcerazione fin dai primi anni ‘90 si svolge nella sospensione delle attività trattamentali, con tutti i limiti che la norma di riferimento impone alla libertà, alle opportunità risocializzanti, ai legami con i familiari, allo studio e alla lettura, alla corrispondenza libera e segreta, all’accesso al lavoro, alla possibilità di partecipare a rappresentanze sindacali, in una parola, alla rieducazione o, anche, alla speranza”.
È evidente come, “dopo vent’anni di soggezione alla detenzione speciale, senza alcun nuovo addebito, senza alcuna nuova indagine, senza che possa essere rilevata nell’alveo familiare del prevenuto alcuna disponibilità sospetta di somme di denaro, fruendo di colloqui sporadici nel tempo, senza che la condotta in carcere sia passibile di alcuna censura, alla persona detenuta si chiede una dimostrazione in negativo del tutto impossibile”.
Quello che viene stigmatizzato nei ricorsi è che ai detenuti è precluso conoscere quale condotta adottare, quale via seguire, per essere allocati in un circuito detentivo che consenta loro di accedere al trattamento ed alla rieducazione.
“Il regime differenziato” – dicono i due avvocati – “si rinnova in modo automatico escludendo dagli indici valutabili l’evoluzione dell’individuo, il suo percorso proficuo di crescita, i suoi sforzi. E la dignità dell’uomo, cui aspira l’intero tessuto costituzionale, viene completamente annichilita perché non si può neppure immaginare un concetto di dignità coerente con lo spegnimento di ogni aspettativa futura, con la preclusione di ogni ideazione o progettualità, nella consapevolezza che la vita di domani è uguale a quella di ieri ed è sottratta al tuo libero arbitrio, governata e scandita dai tuoi custodi”.
In sostanza, secondo Brucale e Mascia, “l’avvio da parte della Cedu delle interlocuzioni con il Governo è certamente un segnale importante. Già con la sentenza Viola c. Italia si era stabilito come una pena che non aspiri in concreto al reinserimento del ristretto è inumana e degradante. Le persone in 41 bis spesso sono da un quarto di secolo sottratte ad una offerta trattamentale che tenda a riabilitarle in chiara violazione già dell’art. 27 della Costituzione. Una norma, il 41 bis, nata come emergenziale è diventata immanente e oggi, dopo il decreto Meloni convertito in legge 199/2022 sul 4 bis O.P., si è anche espressamente escluso chi è sottoposto al 41 bis dall’accesso ai benefici premiali e alle misure alternative. Una pena, insomma, che nega a priori e all’infinito il progetto costituzionale di rieducazione, una pena contraria al senso di umanità, senza speranza”.