Il caso Bari
Bari, Piemonte e i partiti: dissolti e inghiottiti dalla trappola del presidenzialismo
La lezione più rilevante che arriva dall’assalto giudiziario è che la sbornia leaderistica ha portato alla dissoluzione delle forze tradizionali, travolte da personalismi, capetti e beghe territoriali
Editoriali - di Michele Prospero
A Bari la lezione più rilevante della retata pre-elettorale è politica, non certo giudiziaria. Il Corriere e i fogli della destra la vendono nei toni di un giustizialismo redivivo e così mistificano la natura vera della faccenda. Le manette-spettacolo, infatti, trionfano non come reazione ad una sovraesposizione della partitocrazia, ma nel deserto della politica, che vaga come un guscio vuoto da quando è fuggita dalla sua dimensione reale ovvero territoriale. Il controllo delle pratiche di potere, in assenza delle ramificazioni del partito-società, viene perciò monopolizzato dalle procure che, in una ritrovata sintonia con l’agenda unica dei media, alimentano i riti del populismo penale.
Al cancan partecipano i sedicenti garantisti (solo verso i propri ministri più chiacchierati), mossi da puri appetiti di rivincita (la reconquista della Puglia per vie non elettorali), ma anche i nuovi spacciatori dell’intransigenza etica a Cinque stelle, che in verità hanno appena visto prenotati per le patrie galere due antichi pezzi grossi di area capitolina. In Puglia, come prima in Calabria o in Sicilia, emerge la cronica fragilità del modello del partito presidenzializzato a cui fin dalle origini si è conformato il Pd. Il mito salvifico dei gazebo, come luoghi di legittimazione del leader forte in virtù di un miracoloso legame organico con il popolo delle primarie, è saltato da tempo. A lungo questa leggenda venne caldeggiata dal vecchio gruppo editoriale L’Espresso: non si contavano sulle sue pagine i pezzi a sostegno del partito del capo, addirittura nella versione post-moderna del “principe digitale”, bramato quale liberatoria frontiera dell’innovazione ostacolata dagli ammuffiti nostalgici dell’insediamento sociale-organizzativo della politica.
Da quando il Pd ha rinunciato ad una ideologia mobilitante come vocazione di massa, ad una macchina funzionante per la conquista di un consenso strutturato e ad una lettura critica del conflitto tra le classi, ha costruito un soggetto politico ultraleggero con dirigenti reclutati solo entro i circuiti istituzionali. Al comandante rintanato al Nazareno, e visibile nelle rappresentazioni della politica ridotta alla chiacchiera di una ripetitiva ginnastica della comunicazione, faceva da contraltare un territorio consegnato nella sua asperità alle reti di condizionamento neo-notabilari. Ogni macro-personalizzazione, ottenuta grazie al rigonfiamento mediatico delle doti pseudo-carismatiche del leader incoronato, convive con le trame inestirpabili della micro-personalizzazione, sviluppatasi attorno agli arzilli detentori di cariche amministrative, ai gestori scaltri di pacchetti di preferenze cedibili all’occorrenza.
Tutti i prìncipi virtuali, che si sono affermati nelle primarie sospinti dal regime unico del talk show, hanno regolarmente perso alle elezioni vere, e comunque nessuno di loro ha mai osato concepire una ristrutturazione della forma-partito. Il controllo delle liste bloccate, saldamente in mano al segretario nazionale, consente di rivendicare una supervisione sui nomi dei candidati e quindi di esigere un minimo (solo minimo) requisito di qualità per gli ambiziosi componenti del partito degli eletti. Garantita l’accettabilità del marchio per opera di taluni volti noti e apprezzati, il centro ha in gran parte esaurito il proprio compito. Alla periferia viene concesso l’uso in franchising del simbolo, quello che c’è dietro la esposizione dei colori ufficiali del partito non interessa.
Che tipo di detriti si occultino sotto il tappeto, sul quale cammina soave il leader pronto ad essere innalzato al trono dalle primarie, non interroga il segretario, il quale cura la copertura dell’immagine e regna tranquillo sotto la protezione rassicurante del suo staff. Solo un incidente di percorso può costringere lo stato maggiore a misurarsi con grane spiacevoli e mai risolte. Nelle aree interne piccoli signori crescono nella totale carenza di spinte ideali all’agire. In uno spazio disabitato dalla grande politica, la conquista del palazzo amministrativo rientra nelle strategie utili per oliare una privata accumulazione di potenza. Lo scambio tra sostegno e distribuzione di risorse (incarichi, consulenze, nomine, candidature) incentiva esercizi continui di trasformismo, con scatole di preferenze che vengono sballottate da una coalizione all’altra in un moto perpetuo tra destra e sinistra.
Per questo, all’ombra dei cacicchi del potere locale, avvengono spostamenti dei titolari di influenza. I sindaci, i presidenti di regione prevalgono sui simulacri di partito e consolidano posizioni di comando ricorrendo ad arruolamenti decisi nel completo indifferentismo valoriale. Si tratta di nodi profondi che sollecitano il modo di essere della politica post-ideologica e che non possono essere sciolti semplicemente cavalcando qualche mandato di cattura delle procure, sfruttato per annullare alleanze già siglate, oppure scovando belle figurine spendibili sul mercato elettorale. Il cammino dell’opposizione diventa più problematico a seguito della indebita strumentalizzazione politica della mistica della questione morale. Gli interlocutori del Pd sono tutti aspiranti capi, ciascuno di essi rivendica per sé lo scettro pensando: “So assumere più colori che non il camaleonte, e so mutare forma come e più di Proteo, quando ciò mi giovi; e sinanco far mio scolaro quel grande assassino che fu Machiavelli saprei! So far tutto questo, e non saprò anche conquistarmi una corona? Via!” (Shakespeare, Enrico VI, Parte III, Atto III, Sc. II).