Il sì di popolari e dem
Sui migranti patto infame, così l’Europa vende l’anima: il Pd si sfila
Dopo un iter lungo anni, l’Europarlamento dà il via libera al Patto di asilo e migrazione: una serie di regolamenti che puntano a imprigionare i richiedenti asilo e a respingerli in fretta. Per gli stati di frontiera come l’Italia saranno guai. E Meloni non dice nulla?
Editoriali - di Gianfranco Schiavone
Il Parlamento Europeo, a maggioranza, ieri ha approvato i diversi testi di riforma normativa connessi al cosiddetto Patto di asilo e migrazione. Il voto ha evidenziato forti spaccature nelle famiglie politiche europee: il partito popolare, insieme a larga parte dei Socialisti e Democratici è stato a favore; tuttavia con scelta lungimirante, il Partito Democratico italiano, che a quel gruppo appartiene, ha votato contro i testi che prevedono un grave arretramento, insieme ai Verdi e alla Sinistra UE.
Voto contrario, ma per opposte ragioni, è venuto anche dalle variegate formazioni della destra e dell’estrema destra. Si è così giunti alla conclusione, che ritengo infelice per le ragioni che dirò tra poco, di un percorso di riforma molto lunga, iniziata nel 2020 per alcuni testi di riforma più recenti e nel 2016 per altri. I principali testi andati in votazione e che cambieranno il futuro del sistema asilo in Europa sono: a) il nuovo Regolamento RAMM (Rule on Migration and Asylum Managment), che sostituirà il Regolamento Dublino III; b) il regolamento procedure che prevede una nuova procedura accelerata alla frontiera; c) il nuovo regolamento che prevede uno “screening” dei migranti che arrivano irregolarmente alle frontiere esterne dell’UE; d) la revisione del regolamento Eurodac che crea una nuova banca dati sull’immigrazione; e) il nuovo regolamento finalizzato a gestire le cosiddette situazioni di crisi in un paese membro.
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Tutte le associazioni europee sono concordi nel dare un giudizio fortemente negativo della riforma e in Italia un’attiva campagna è stata condotta dal Forum per Cambiare l’Ordine delle Cose, in coordinamento con numerose associazioni e reti. La dichiarazione forse più dura nei confronti di ciò che si è votato è quella di Eve Geddie, direttrice dell’ufficio Istituzioni europee di Amnesty International, secondo cui “questo Patto farà regredire di decenni la legislazione europea in materia di asilo, esponendo molte più persone, in ogni fase del loro viaggio, a grandi sofferenze e al rischio di violazioni dei propri diritti umani”. Questa valutazione, che io condivido interamente, è assai pesante se si considera che è rivolta a un testo che è stato sempre presentato come un compromesso invece di un testo estremista – come invece è – e che come testo di compromesso è stato votato, come si è visto, da una maggioranza politica trasversale che ha visto larga parte del gruppo SD (socialisti e democratici) appoggiare la riforma compiendo un errore di valutazione macroscopico che peserà come un macigno su questa formazione politica per molti anni a venire.
Dedicare poche righe all’analisi di ogni testo non permetterebbe al lettore di cogliere i contenuti di questa complessa riforma, dunque ritengo più utile indicare i paradigmi culturali, prima ancora che giuridici, su cui la riforma nel suo complesso è costruita. Il primo obiettivo è aggirare l’obbligo inderogabile dato dal diritto internazionale ed europeo di esaminare le domande di asilo di coloro che, giunti nel territorio di uno Stato membro, vi chiedono protezione. In che modo? Usando in modo spregiudicato la nozione di “paese terzo sicuro” (art. 45 del futuro regolamento procedure) cercando di rinviare in tali paesi tutti i richiedenti asilo che si ritiene abbiano “un legame in base al quale sarebbe ragionevole recarsi in tale Paese”.
Espressioni vacue prive del necessario requisito giuridico della tassatività, ma molto utili ad essere usate a fini politici giacché l’obiettivo è chiaro: nei confronti chiunque abbia transitato in paesi terzi o vi sia rimasto per necessità per un certo tempo in attesa di proseguire il viaggio, o vi abbia chiesto asilo come scelta forzata per cercare di accedere a un minimo di assistenza, si tenterà di attribuire la competenza ad esaminare la domanda di asilo al Paese terzo, sostenendo che esso è comunque in grado di fornire una protezione effettiva (art. 43a) anche nel caso ciò non sia affatto reale.
La domanda di asilo dello straniero sarà in tal modo dichiarata inammissibile e dunque mai esaminata nel merito. Ancora una volta spetta ai contenziosi e alla giurisdizione, con i suoi limiti e i suoi tempi lunghi, frenare e circoscrivere questa spregiudicata strategia politica; nel frattempo intanto via libera al caos. Il secondo obiettivo è quello del regolamento denominato appunto “screening” la cui finalità ufficiale è garantire una rapida individuazione della procedura corretta applicabile; il rischio molto elevato è però che nella realtà venga attuata una prima selezione sommaria allo scopo di diminuire il numero dei richiedenti asilo usando procedure ingannevoli.
Immaginiamo ad esempio che, senza un setting adeguato e senza fornire informazioni sul diritto di chiedere asilo e su dove e come farlo, il poliziotto di frontiera interroghi lo straniero chiedendogli “sei venuto in Italia per lavorare?” . La persona potrebbe rispondere affermativamente ritenendo di sì ovvero che intende rendersi autonomo e ricostruirsi una vita il prima possibile. Questa risposta potrebbe essere sufficiente, in assenza di garanzie di difesa e di revisione del procedimento, sulle quali il regolamento è volutamente ambiguo, a fare scattare il trattenimento e l’immediato respingimento dello straniero forzatamente incasellato come non richiedente asilo.
Il terzo obiettivo è ribaltare completamente il corretto approccio normativo per cui la procedura ordinaria è quella che si applica nella maggior parte dei casi e che prevede pienezza di garanzie procedurali e di tutele, mentre una procedura speciale/accelerata di frontiera va applicata in casi limitati e tassativamente definiti, tali da giustificare un affievolimento delle garanzie. Nel nuovo regolamento procedure avviene un tale allargamento delle fattispecie legittimanti l’applicazione della procedura di frontiera, con trattenimento dei richiedenti asilo, da farvi rientrare la maggior parte delle domande di asilo. Così la accelerata diventa de facto l’orizzonte ordinario e la procedura ordinaria diventa invece un’ipotesi residuale. L’applicazione del nuovo regolamento procedure comporterebbe uno stravolgimento totale dei sistema di accoglienza degli stati membri ed in particolare del sistema di accoglienza di quelli Stati che hanno frontiere esterne, come l’Italia, lo Stato membro più penalizzato dal nuovo scenario (viene da chiedersi dov’è il Governo italiano in tutto ciò).
In luogo dei centri di accoglienza (già ora luoghi di ammassamento e degrado) sorgerebbero centri di trattenimento/detenzione amministrativa dove rinchiudere i richiedenti asilo oggetto della debordante procedura accelerata. In base alla novella nozione di “capacità adeguata” di uno stato membro per l’espletamento della procedura di frontiera introdotta dal Regolamento (art. 41 ter) l’Italia dovrebbe dotarsi di strutture di trattenimento che, stando all’acuta simulazione effettuata dalla London School of Economic per una forbice che va da 12mila posti a 35mila posti circa (oggi tutti i posti disponibili negli hotspot sono di circa 1600 posti e quello nei CPR di 1.300).
Non si tratta solo di un obiettivo che è impossibile da raggiungere sul piano organizzativo come chiunque ben comprende, bensì di un obiettivo che va in sé rifiutato in ragione delle sue finalità. La procedura accelerata di frontiera si applica solo alle frontiere esterne (ciò per l’Italia esclude gli ingressi dei rifugiati dalla rotta balcanica essendo quello con la Slovenia un confine interno dell’Unione) e ciò porterebbe a disseminare la Sicilia, e in parte la Calabria e la Puglia, di una quantità inaudita di strutture detentive con ricadute economiche e di militarizzazione del territorio di tali proporzioni da ridefinire l’assetto stesso di parte del Paese. In alternativa sarebbe possibile, ai sensi del Regolamento (scenario non meno folle) attivare centri di frontiera in ogni parte del territorio nazionale; quindi potremmo aprire il centro di frontiera di Perugia, quello di Bologna e così avanti, creando una sorta di sistema concentrazionario diffuso dove inviare i richiedenti asilo. Nel fare ciò si tenterebbe probabilmente di trasformare alcune delle attuali strutture CAS, e specie quelle che oggi sono ubicate in ex caserme di proprietà demaniali, in strutture di detenzione. A quale fine attuare una simile gigantesca operazione? Allo scopo presunto di agevolare i rimpatri veloci, la vera ossessione del sistema.
L’ambigua nozione giuridica denominata “finzione di non ingresso” consente infatti di allontanare coloro la cui domanda di asilo viene rigettata senza le garanzie che sono proprie delle misure di espulsione dal territorio di uno Stato UE, in quanto si finge, appunto, che i richiedenti asilo in realtà non abbiano fatto mai ingresso nel territorio dello Stato da cui possono dunque essere allontanati con provvedimento di respingimento alla frontiera. Infine il quarto obiettivo contenuto nuovo “Regolamento crisi”: la nozione di strumentalizzazione dei migranti da parte di un paese terzo o di un attore non statale di quel paese, rimane pericolosamente vaga e autorizza lo Stato che invoca l’esistenza di una situazione di strumentalizzazione a ridurre drasticamente le garanzie di esame delle domande di asilo e ad applicare misure generalizzate di detenzione anche senza che vi sia, a fondamento di tali decisioni, una situazione di reale e comprovata difficoltà nella gestione del sistema di asilo del paese membro coinvolto. Lo scandalo delle violenze avvenuto ai confini polacco-bielorussi non sembra avere insegnato nulla. Anzi, forse ciò che vogliamo, alcuna sinistra compresa, è proprio mettere a norma quel sistema di violenza.