Campo largo. Campo giusto. Campo minato. Alfredo D’Attorre, membro della segreteria nazionale del Partito Democratico, nel centrosinistra, e dentro il Pd, a dominare è sempre e solo il rovello delle alleanze?
È interessante che molti commentatori prima delle elezioni imputino al Pd di occuparsi troppo del rapporto con i potenziali alleati e dopo le elezioni di non aver stretto le alleanze necessarie. Il caso delle ultime elezioni politiche è paradigmatico al riguardo: se si confrontassero le cose scritte dagli stessi analisti prima e dopo il risultato elettorale, ci sarebbe da divertirsi. Dati gli attuali sistemi elettorali a livello territoriale e nazionale, le alleanze servono, a meno che non riteniamo la situazione talmente tranquilla da poter dedicare i prossimi dieci anni a una battaglia di opposizione di testimonianza mentre la destra conduce il Paese verso un futuro radioso… Detto questo, è chiaro che il Pd svolge meglio il suo ruolo di collante dell’alternativa alla destra se rafforza la sua identità e riesce a parlare sempre di più un linguaggio chiaro.
Che impatto può avere a livello nazionale la vicenda pugliese e il modo in cui Conte l’ha affrontata rispetto al Pd?
Conte ha mostrato nella vicenda pugliese elementi di tatticismo che nell’immediato rendono più complicati i rapporti con gli alleati e alla lunga, secondo me, non aiutano neppure la crescita del M5S. Che senso ha ribadire il giudizio positivo su un’esperienza di governo, proporsi di volerla rilanciare e allo stesso tempo compiere un gesto unilaterale da primi della classe? Non bisogna mai sottovalutare la capacità di comprensione dell’elettorato, che, anche quando appare distratto, coglie gli elementi di incoerenza e strumentalità. Se legittimamente si ritiene che sia necessario trovare una candidatura di sintesi a Bari o rifare daccapo la giunta regionale pugliese, questi risultati si ottengono più facilmente ragionando con i propri alleati o costruendo uscite mediatiche estemporanee? Anche perché Conte sa benissimo che in prospettiva non c’è alternativa all’alleanza con il Pd e le altre forze di centrosinistra, né a livello territoriale né tantomeno a livello nazionale.
Lo “strappo” di Bari, le divisioni in Piemonte, la disputa in Basilicata. L’asse Pd-5Stelle non appare in buona salute. Sono solo incidenti di percorso locali o i segnali dell’ennesimo atto di “tafazzismo” politico nel centrosinistra?
Al netto delle specificità locali e anche di possibili errori politici nei singoli casi, il modo in cui queste vicende sono state vissute dimostra che non abbiamo ancora metabolizzato la natura dell’alleanza che dovremo costruire. Piaccia o no, il Pd non è più nella situazione di essere il dominus incontrastato della coalizione e di avere intorno solo “cespugli”. Allo stesso tempo, il M5S non pare ancora essere del tutto consapevole che, a maggior ragione se vuole perseguire l’obiettivo della leadership della coalizione, non può dare l’idea di essere con un piede dentro e un piede fuori. E non illudiamoci che la competizione per il primato nell’alleanza finirà con le europee. Dato anche il sistema elettorale vigente, è improbabile che stavolta ci saranno federatori esterni o “papi stranieri”, non tornerà lo schema dell’Ulivo. Così come resto convinto che l’elezione diretta del premier sia un incubo di cui ci liberemo al più tardi con il referendum costituzionale. Quindi, se, come credo, il centrosinistra vincerà le prossime elezioni politiche, il leader del primo partito della coalizione legittimamente rivendicherà il ruolo di Presidente del Consiglio. E penso dobbiamo vivere con serenità il fatto che Conte coltiverà questo disegno fino alle prossime elezioni. Allo stesso tempo, credo che la sfida interna alla coalizione alla fine la vincerà il Pd, anche perché l’elettorato premierà chi saprà trovare l’equilibrio più intelligente tra cooperazione e competizione. Se nel suo primo anno di segreteria Elly Schlein è riuscita a ribaltare i rapporti di forza con il M5S rispetto ai sondaggi di un anno fa, nonostante tutti i problemi che il Pd si trascina dal passato, è anche perché gli elettori alla ricerca di un’alternativa alla destra hanno percepita la sua leadership come quella più unitaria e responsabile.
Perché il centrodestra appare più compatto e sembra reggere dopo un anno e mezzo di governo non proprio ricco di risultati?
Regge il collante del potere ma la dinamica discendente del consenso è già cominciata, come indicano, pur nella loro diversità, i risultati sia della Sardegna sia dell’Abruzzo. E il DEF in bianco approvato dal governo, che non dice nulla sulle dure scelte di bilancio che si profilano, indica la nuova fase in cui entreremo dopo le europee, in cui i fumi della propaganda e l’occupazione dell’informazione pubblica non riusciranno a nascondere la cruda realtà di una crescita stagnante e della nuova stagione di austerità all’orizzonte. Come peraltro già successo in passato, dopo un paio di anni dal loro insediamento, a diversi governi di vario indirizzo…
Il “nuovo Pd” è ancora ostaggio di cacicchi locali e nazionali?
Ostaggio no, ma penso che dopo le europee serva aprire una fase due della segreteria Schlein. Finora la segretaria si è caricata anche di responsabilità non sue per tenere unito il partito. Ora credo sia determinata a procedere a quella riforma e rigenerazione interna che chi ha dato fiducia al nuovo corso si aspetta. Personalmente penso che occorra dare segnali chiari anche su regole semplici e di buon senso. Per chi del Pd esercita ruoli amministrativi monocratici, con l’inevitabile concentrazione di potere che essi comportano, due mandati sono sufficienti, indipendentemente dai limiti di legge. Chi fa il segretario del partito a livello provinciale o regionale non può contemporaneamente stare negli uffici di gabinetto del sindaco o del presidente della Regione. Un grado minimo ed essenziale di autonomia e distinzione del partito rispetto ai ruoli amministrativi va ristabilito. Il ruolo dei semplici iscritti va rafforzato, rendendo vincolante il loro parere su scelte politiche rilevanti e sull’adesione al partito da parte di esponenti provenienti da altri schieramenti.
In vista delle europee, nel Pd si assiste alla corsa alle candidature e al loro posizionamento nelle liste. Non è un bel vedere.
Ma ha notato che sui giornali da mesi ci sono articoli quasi solo sulle liste del Pd, come se gli altri partiti non si presentassero alle europee? Semplicemente per gli altri si dà per scontato il capo deciderà tutto a poche ore dalla presentazione delle liste. Nel Pd si discute, è comprensibile anche che vi siano umane e legittime aspirazioni individuali, l’importante è che tutti capiscano che l’equilibrio finale deve essere funzionale ad allargare lo spazio elettorale, non a restringerlo.
L’Unità sostiene, per ciò che rappresentano in campi cruciali come la pace e il garantismo, le candidature di Andrea Tarquinio e Ilaria Salis Candidature osteggiate da una parte del Pd. È un problema di concorrenza o di contenuti che quelle candidature scomode simboleggiano?
Personalmente sono molto favorevole alla candidatura di Andrea Tarquinio, per l’apertura che essa esprime sia verso il mondo pacifista sia verso il mondo del cattolicesimo democratico. Credo siano due direzioni essenziali verso cui lavorare per costruire il nuovo Pd. Condivido invece la prudenza della segretaria su Ilaria Salis. Trovo sorprendente che si sia aperto un dibattito pubblico su questo tema anche nel partito senza considerare la delicatezza delle implicazioni.
Non le sembra che il Pd stenti a far emergere una proposta forte in vista delle elezioni europee?
Ci sarà presto un programma ufficiale e organico ma credo che contino ancora di più alcune decisioni concrete espresse in queste settimane. Dall’immigrazione alle regole di bilancio fino alla necessità di un’iniziativa politico-diplomatica per la pace, il Pd va in Europa non per difendere lo status quo, ma per cambiare. Se necessario, anche aprendo una discussione all’interno del PSE. Stavolta è la Meloni che si presenta a difesa dello status quo e di un’idea di un’Europa minima, del tutto priva di iniziativa e di autonomia: c’è il suo consenso sui compromessi al ribasso e contrari all’interesse nazionale su immigrazione e nuovo Patto di Stabilità ed è suo il sostegno acritico all’ultima fase, decisamente meno convincente, della presidenza von der Leyen.
Cosa pensa delle polemiche sulle Università in relazione alla vicenda Israele-Gaza?
Ho trovato raccapriccianti alcuni toni e argomenti contro l’autonomia degli organi accademici che hanno deciso di non aderire a bandi di cooperazione scientifica con possibili ricadute applicative in ambito militare. Qualcuno è giunto a sollecitare una censura formale del Ministero dell’Università paragonando queste decisioni al discorso rettorale di Heidegger di adesione al nazismo. Penso che l’interruzione della cooperazione fra università in sé non sia mai auspicabile e non entro nel merito delle decisioni di segno diverso prese dai diversi atenei, ma siamo di fronte a un clima da caccia alle streghe e di insofferenza per l’autonomia dell’università che va assolutamente contrastato. Invece, in generale, il sistema mediatico e quello politico si occupano dei problemi sostanziali dell’Università troppo poco. Anche per questo giovedì prossimo, il 18 aprile, terremo al partito un’iniziativa nazionale su due questioni decisive per il futuro del nostro sistema universitario: il sostegno al diritto allo studio e una rigorosa regolamentazione di un fenomeno ormai sfuggito di mano, quello degli atenei telematici.