Una figura grande e tragica quella di Giovanni Gentile. Il pensatore siciliano non è “un filosofo a cui si aggiunga un politico: c’è in lui una completa inscindibile unità del filosofo e del riformatore religioso e politico” (Augusto Del Noce, Giovanni Gentile, Bologna, 1990, p. 12).
Alla luce di questo incastro tra speculazione e pratica politica, non è difficile rintracciare in certi suoi discorsi e saggi l’esaltazione dell’ “Uomo che a Palazzo Chigi lavora giorno e notte, nel travaglio di una passione fiammeggiante per la grandezza della Patria, i grandi occhi intenti, rivolti su voi, su tutti gli italiani” (cfr. Alessandra Tarquini, Storia della cultura fascista, Bologna, 2016, p. 112).
Più complesso, invece, è cogliere il nesso che sussiste tra l’infatuazione per il capo e i prodotti della officina filosofica (non solo) italiana. Il problema è stato impostato dallo storico S. G. Payne (A History of Fascism, 1914-1945, London, 1995, p. 62).
“La crisi culturale di fin de siècle – egli scrive – ebbe un impatto più forte in Italia che in nessun altro paese. I filosofi del neoidealismo italiano gareggiarono con i loro colleghi tedeschi per ottenere la primazia nella battaglia antipositivista, mentre scienziati sociali e teorici italiani come Mosca, Pareto e Scipio Sighele furono riconosciuti a livello internazionale come capiscuola delle nuove dottrine elitiste e antiparlamentari. In nessuna parte del mondo si trovavano oppositori più veementi della cultura borghese, del liberalismo, dell’umanesimo e del pacifismo”.
La ribellione contro le forme della politica (la negazione della rappresentanza) e il concetto (il paradigma scientifico rigettato in favore della “laica religiosità dello spirito”) esce dalle scrivanie per incidere sui processi di disgregazione della civiltà liberale.
In tutta l’elaborazione gentiliana, sin dall’opera giovanile su Marx del 1899 (La filosofia di Marx, Firenze, 1974), apprezzata non a caso anche da Lenin, un filo rosso è rintracciabile nella rivolta contro il pensiero formale-astratto in nome della vita, della coincidenza di ragione e creazione.
Al Marx materialista, che postula la positività del dato sensibile e si richiama all’astrazione determinata per definire categorie specifiche di analisi, Gentile preferisce un altro Marx, il cantore della volontà pragmatica che rovescia il reale, della eccedenza dell’agire che annichilisce ogni oggetto empirico. Quello che per Gentile più conta è presidiare il continente della prassi, “che è fare e conoscere insieme”.
Questa compenetrazione è l’approdo della nozione “fecondissima dell’energia pratico-critica; dell’energia che si esplica producendo e conoscendo simultaneamente ciò che produce” (La filosofia di Marx, p. 81). Affiora così un fondo mistico-attivistico come elemento decisivo nell’ossatura della filosofia gentiliana dell’attualismo.
Con una chiara ipertrofia del soggetto, l’empiria decade come un inciampo, un non-essere, e questa sua degradazione ne rende possibile il superamento per fissare quella fusione di pensiero e azione, logica e sentimento, che Sorel troverà nel linguaggio del mito.
Contro il canone del metodo scientifico che separa concetto e mondo empirico, Gentile si sforza di mostrare che “il trascendente nell’intuizione filosofica diviene immanente” (p. 100) e il pensiero è “immanente nella realtà” (p. 160).
Nelle opere filosofiche successive, torna questo ricorrente tema di oltrepassare la “categoria-concetto” che viene impiegata nei procedimenti del sapere fisico-naturale. Rispetto alla categoria come “funzione del pensare” sempre relativa al dato sensibile, Gentile esalta il monismo di una ragione che non intende “giudicare” attraverso una sintesi tra schema logico e contenuto empirico, ma proporsi, alla maniera di Giordano Bruno e di Hegel, quale “unità dei molti e dell’uno”.
Nel Sistema di logica come teoria del conoscere (Bari, 1923, p. 39), la determinazione finita viene decostruita attraverso “l’energia logica”, la quale, negando il sensibile, culmina nell’apoteosi dell’agire, della prassi che conferisce al pensiero concretezza. Si tratta di una ragione vitale che trascende la logica dell’intelletto ancorato alla positività del molteplice-esteriore.
L’esito del soggettivismo della volontà-spirito traspare nitidamente in queste parole di Gentile: “Trasportata la verità dall’astratto nel profondo della concreta nostra esperienza, nell’intimo dell’animo nostro ritrovata la sua divina eternità nel logo trascendentale onde si avviva ogni pensiero in cui la nostra mente si specchia, concepita quindi la ragione come la subbiettività estrema dove prima appariva l’estrema obbiettività, vien meno nel soggetto il motivo di distinguere tra senso e intelletto, cuore e ragione” (ivi, p. 100).
Il trionfo del soggetto comporta l’accantonamento della distinzione, il misconoscimento dell’autonomia della oggettività. A Guido Calogero (La conclusione della filosofia del conoscere, Firenze, 1960, p. 31) non sfugge il risvolto irrazionalistico del cammino dell’autocoscienza della “subbiettività estrema”, il cui impianto culmina “nell’assoluta unità spirituale, non più scindibile in una funzione teoretica e in una funzione pratica, ma in cui quindi la stessa attività conoscitiva si colora di un aspetto tipicamente etico, come azione dello spirito in se stesso e non più in rapporto a una realtà da conoscersi”.
Analoga è la rilevazione di Eugenio Garin (Storia della filosofia italiana, Torino, 1978, p. 1300), secondo il quale Gentile oscilla tra “esito mistico” ed “empirismo assoluto” in quanto, nell’atto puro dello spirito, egli crede di aver ricongiunto “fare e pensare, materia e spirito, unità e molteplicità, fino ad annullare tutto in un Dio già, a sua volta, risolto nell’assoluta immanenza dell’Atto”.
Nella parabola dell’unità originaria che si fa immanente consiste “la distruzione della filosofia” operata da Gentile, il quale non intende fornire una logica del reale, ma assorbire nel reale la logica. Nel suo tragitto, il pensiero non può che originarsi dal pensiero medesimo, che produce anche il non essere pronto a dileguarsi nell’Unità ritrovata.
Il nodo dell’attualismo, che in nome dell’atto puro o pensiero concreto procede nel disprezzo dell’empiria trattata come non-essere, lo coglie Gennaro Sasso (Filosofia e idealismo. Giovanni Gentile, Napoli, 1995, p. 81), quando rinviene nella filosofia gentiliana “la suggestione derivante dallo schema romantico per il quale l’oggetto è natura e questa è un limite che, impaziente delle cose finite, lo spirito pone per oltrepassarlo e in questo atto realizzare sé stesso”.
La concezione negativa dell’empirico, volta a confermare il primato dell’idea e l’anteriorità dello spirito nel sistema, conduce verso l’aporia che fa vedere, nel cuore dell’idealismo attuale, la ricomparsa della dimensione rimossa del sensibile.
“Esclusa, la natura tornava attraverso la negazione a ribadire il suo buon diritto all’esistenza e all’equa considerazione di questa” (ivi, p. 133). In tal senso, l’assoluto idealismo assume le sembianze di un assoluto positivismo.
Lo spirito, dopo aver negato il reale come un semplice non-essere, lo recupera in una maniera però surrettizia, assolutizzando un dato temporale particolare come la piena incarnazione dell’idea concreta che si fa grande storia.
Lo spirito, ricusando la forma e trascendendo l’empiria, coincide con la seduzione per il fare di un corpo empirico, con l’incantamento, denunciato da Croce, davanti all’atto puro della “Circe di moda” che recita da un balcone e a Gentile pare “un eroe, uno spirito privilegiato e provvidenziale, in cui il pensiero s’è incarnato, e vibra incessantemente col ritmo potente d’una vita giovanile e in pieno rigoglio”. Lo spirito si compie anche in fenomeni come la guerra mondiale, la quale non indica il nulla, l’apocalisse, ma rivela una essenza mistica che racchiude il vero, la vita, la bella comunità.
Con il suo “idealismo irrazionalistico”, come lo definisce Croce, la filosofia di Gentile intuisce la forza pratica del mito politico e delle istanze di rigenerazione etico-religiosa della politica come espressione di “uno Stato virtuale che tende a realizzarsi”.
L’organismo statale, che rinuncia alla rappresentanza parlamentare per identificarsi con la decisione del capo-eroe lanciante “il violento grido di giovinezza”, esprime la volontà reale di un popolo-comunità.
L’impeto mistico, “la fede creatrice” deve però trovare un raffreddamento, e per disporre un argine contro “l’utopistico giacobineggiare che vorrebbe cominciare sempre da capo” serve la identificazione del soggettivismo radicale con una salda tradizione.
La nazione si presenta come una sostanza etico-religiosa (non come il sangue e la terra), nella quale prassi e pensiero sono fusi in una simbiosi perfetta grazie alla stabile struttura del potere toccato dalla spiritualità.
Alle insidie del movimentismo del potere costituente-diveniente, che nel suo fluire ininterrotto rende problematica la celebrazione dell’ordine costituito e quindi la stessa divinizzazione del potere del duce, Gentile risponde con la proclamazione della coincidenza di capo e Stato-autocoscienza capace di “autocritica” concreta, di una correzione interna mai affidata a opposizioni o punti di vista autonomi.
In questa evocazione di un potere totale, come compimento etico-spirituale già raggiunto, risiede il contributo politico della filosofia del neoidealismo. Lo spiega bene A. James Gregor (The ideology of fascism: the rationale of totalitarianism, New York, 1969, p. 223): “Nella filosofia di Gentile il nazionalismo e lo statalismo del fascismo trovarono un’argomentata difesa. Gentile forniva una portentosa logica della dottrina che concepiva l’individuo, il popolo, il partito, la nazione e lo Stato come un’unica entità morale, una sola costellazione di interessi ultimi. La sua filosofia è stata la prima, e forse unica, esplicita difesa del totalitarismo carismatico del XX secolo. I principi dottrinali della concezione organicistica della nazione, della collaborazione di classe, del partito unico e del totalitarismo trovano sostegno negli argomenti giustificativi dispiegati nella filosofia sociale e politica di Gentile”.
In questo consiste il momento tragico di una filosofia che scende dalla cattedra e transita come protagonista degli eventi storici del Novecento.