Parola allo storico
Intervista a Massimo Salvadori: “Il Pd sfugga alla morsa di Conte e scelga Sánchez”
«Il Partito socialista spagnolo dimostra efficienza interna e pratica riformatrice. Se il Pd continuerà a respingere la trasformazione in partito socialdemocratico, non strapperà ai 5S la pretesa di essere essi la vera sinistra italiana»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Per storia, pubblicazioni e profilo accademico, Massimo L. Salvadori è ritenuto, a ragione, uno dei più autorevoli storici e studiosi italiani della sinistra: professore emerito all’Università di Torino.
Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo i più recenti: Le ingannevoli sirene. La sinistra tra populismi, sovranismi e partiti liquidi (Donzelli, 2019); Storia d’Italia. Il cammino tormentato di una nazione. 1861-2016 (Einaudi, 2018); Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà (Donzelli, 2016). Democrazie senza democrazia (Laterza, 20111); L’antifascista. Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024) (Donzelli, 2023).
Campo largo. Campo giusto. Campo minato. Nel centrosinistra, e dentro il PD, a dominare è sempre il rovello delle alleanze. Professor Salvadori, siamo alle solite?
Per rispondere alla domanda, bisogna intendersi su che cosa si ritiene sia una alleanza tra soggetti politici, quale la natura dei soggetti che si alleano e quale il loro obiettivo. Per un verso possiamo intendere l’alleanza nel suo significato debole, e cioè come una intesa per motivi contingenti e transitori, un patto precario diretto a perseguire determinati interessi, tra “partiti liquidi”, caratterizzati da scarsa stabilità interna, vale a dire da un alto tasso di volatilità dei militanti e dalla disposizione dei membri dei gruppi dirigenti, per l’assenza di solide e coerenti culture politiche, a mutare disinvoltamente di linea politica a seconda di quelle che si giudicano volta per volta le maggiori convenienze. Il rapporto venuto a stabilirsi tra il Pd e i 5Stelle è sostanzialmente di questo tipo. Per altro verso una alleanza nel suo significato forte è quella stabilita tra soggetti strutturati, in grado di fissare limiti precisi in merito all’accesso dei militanti, di attribuire i ruoli direttivi a persone di provate capacità, di esperienze acquisite, dotate di una popolarità fondata sulla fedeltà alla causa comune nella buona e nella meno buona sorte, accomunate da una visione condivisa alimentata da una cultura politica alla costante ricerca di una adeguata comprensione e lettura degli sviluppi della società e degli interessi che si ritengono vitali per chi si vuole rappresentare e indirizzare nel contesto più generale di un progetto di governo dello Stato. Questa seconda concezione di alleanza è preclusa ai cosiddetti “partiti liquidi”.
Perché?
Lo impedisce la loro intrinseca natura: il fatto di essere partiti “a porte girevoli”, nei quali si entra con facilità e dai quali si esce con altrettanta facilità, ogni seria selezione dei ruoli dirigenti è di conseguenza interdetta, viene aperta la via ai trasformismi, la caccia alle poltrone, al cambiare casacca badando ai vantaggi personali. Si tratta di una politica destinata a far balzare in primo piano la “questione morale”.
Lo “strappo” di Bari, le divisioni in Piemonte e via elencando le dispute aperte in giro per l’Italia. L’asse Pd-5Stelle non appare in buona salute. Sono solo incidenti di percorso locali o c’è qualcosa di più profondo?
Ritengo di avere già sopra fornito elementi che contribuiscono a rispondere a questo interrogativo. Ma occorre soffermarsi su altri aspetti al fine di capire ciò che vi è di “più profondo” nel rendere in non buona salute l’asse Pd-5Stelle. Intanto, bisogna sottolineare che questo asse non è in buona salute, con il risultato di rendere debole una efficace opposizione al governo della Destra, poiché è tarlato dagli effetti nefasti della rivalità dei due partiti impegnati a prevalere l’uno sull’altro. Lo si coglie guardando alle rispettive strategie in vista delle incombenti elezioni per il Parlamento europeo. Pur senza voler abusare delle analogie storiche, possiamo osservare che 5Stelle e Pd fanno oggi venire alla mente i socialisti massimalisti, i comunisti e i riformisti che nel 1919-22, di fronte al fascismo emergente, lottavano fra loro per stabilire il proprio primato nella sinistra. Da una simile sfida è inevitabile che a uscirne vincitore sia la Destra. Il supertrasformista Conte si erge con successo a fustigatore delle (effettive) magagne del Pd e a “maestro” di moralità politica nei confronti di una Elly Schlein che si destreggia come può di fronte ai non risolti problemi interni del suo partito. Sennonché la segretaria non riuscirà a trovare soluzioni adeguate se il Pd rimarrà un partito liquido a “porte girevoli”. Dove può guardare la Schlein, vi è un buon esempio in qualche parte d’Europa per dare una “identità” al suo partito? È ben vero che i partiti socialisti europei navigano in maggioranza in acque agitate. Ma credo che il Pd dovrebbe valutare attentamente la natura e l’organizzazione di un partito che non è liquido, e ha dimostrato e continua a dimostrare efficienza interna e fattività riformatrice: il Partito socialista spagnolo di Pedro Sánchez. Se il Pd continuerà a respingere, come sempre la sinistra italiana in passato, la sua trasformazione in un partito socialdemocratico, non sarà in grado di strappare ai 5Stelle la pretesa di essere essi la vera, unica sinistra italiana e continuerà a soffrire della “separatezza” che l’ha reso e lo rende estraneo agli occhi e ai sentimenti dei tanti lavoratori che gli hanno voltato e gli voltano le spalle. A mostrare di tenere fermo sulla questione sociale è il segretario della Cgil, Landini; ma lo fa assumendosi il compito che spetta in prima persona a un partito.
Il lavoro che non c’è, il lavoro per cui si muore, come, ancora una volta, racconta la strage di Suviana. Una sinistra che cerca di riconnettersi con il mondo dei lavoratori non dovrebbe ripartire da qui?
Ho già cercato di rispondere a questa questione. Aggiungo che problemi aperti e urgenti a cui mettere mano restano in primo piano: quello della disoccupazione giovanile e quello di una politica impegnata, tanto più di fronte al nostro declino demografico, nell’aprire le porte al lavoro degli immigrati. Occorre frenare l’emigrazione dei giovani qualificati che fuggono dal paese per mancanza di opportunità, alzare il livello della formazione scolastica, combattere con energia la regressione del servizio sanitario nazionale. Quanti, dunque, i temi per un Pd che si presenti con vigore come una forza schierata con la sua autonomia in difesa della democrazia e del mondo del lavoro. In questo momento numerosi sono i suoi esponenti che da un lato insistono che bisogna “rifondare” il Pd, ma dall’altro non indicano quali le basi, quale la cultura politica, quale l’ancoraggio sociale di primario riferimento. Ebbene, lo ripeto con convinzione nell’anno in cui si celebra il centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti: la bussola non può che essere la socialdemocrazia, quella di cui egli fu un campione coraggioso, ma che nella storia d’Italia non ha avuto eredi (poiché tale non può essere considerato il partito di Saragat).
Di fronte a vicende di cronaca politico-giudiziaria che stanno tenendo banco, c’è chi pensa di affrontare il nido di vespe con un “codice etico” per i candidati, gli amministratori e i dirigenti. Può bastare? La “questione morale” non è in primo luogo una questione politica che rimanda a ciò che sono diventati i partiti?
I codici etici sono doverosi, necessari, ma in nessun modo sufficienti. La misura della loro utilità ed efficacia è data dalla disposizione dei partiti ad affrontare con intransigenza le mele bacate, le mele marce e le pratiche che da esse derivano. Altrimenti essi non sono soltanto inutili, ma appaiono una mera strategia di copertura al malaffare. L’etica o viene interiorizzata oppure è una melassa maleodorante, lo specchio ingannevole delle solidarietà tra trafficanti.
Fra meno di due mesi vi saranno le elezioni europee. Quali prospettive per l’Europa? Intanto il mondo è dentro quella che Papa Francesco ebbe a definire “la terza guerra mondiale a pezzi” in relazione ai tanti conflitti, in atto in primo luogo in Ucraina, a Gaza, e ora tra Iran e Israele, che sconvolgono i rapporti internazionali. Ma la politica italiana discute di altro. Siamo fuori dal mondo?
Le prossime elezioni sono chiamate a stabilire i rapporti di forza tra le varie famiglie politiche dell’Unione Europea, la loro fisionomia e le reciproche alleanze. Ma l’Unione resta una struttura fragile, segnata da accentuate differenze, nella quale, ad esempio, l’Ungheria e la Slovacchia convivono in uno stato di collisione su molti temi cruciali con gli altri paesi. Tutti i paesi vedono poi al loro interno partiti e movimenti che seguono vie diverse in politica interna e in politica estera. Europeisti contro antieuropeisti, zelanti filoamericani e critici della supina sudditanza all’atlantismo, favorevoli all’accoglienza disciplinata degli immigrati e quanti invocano la difesa della minacciata identità etnica, culturale e religiosa, ancorati ai valori della democrazia liberale e fautori della “democrazia illiberale”, per tacere dei movimenti della destra fascistoide. L’Unione europea soffre insomma di gravi turbolenze circa gli indirizzi da darsi e seguire. Le elezioni forniranno risposte non convergenti e l’Unione resterà di fronte ai conflitti internazionali debole, divisa e priva di orientamenti condivisi. L’Italia non è fuori dal mondo. Si trova in un mondo nel quale esercita in maniera oscillante ruoli subalterni: subalterni rispetto sia agli Stati più forti dell’Europa sia agli Stati Uniti, privi a loro volta di una bussola atta ad affrontare i nodi di una politica internazionale che sfiora l’impazzimento.