La rubrica
Perché le rivolte nelle università Usa e lo spettro della repressione del governo contro gli studenti
La critica degli studenti riguarda non solo l’infamia della carneficina israeliana, ma anche l’autolesionistica furbizia americana dei due pesi e delle due misure: buffetti di condanna, a parole, di Netanyahu, niente sanzioni a Israele e imperterrita continuazione di forniture di armi per realizzare i massacri.
Editoriali - di Mario Capanna
Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia.
(T. Campanella)
Ribollono, negli Stati Uniti, le università. Gli studenti si mobilitano massicciamente a fianco dei palestinesi, contro la disumana carneficina perpetrata da Israele. E non sono pochi i professori che li appoggiano.
L’epicentro è costituito dalle università più prestigiose: la Columbia University di New York, Yale, Harward, Berkeley ecc., ovvero gli atenei d’élite. E sono innumerevoli i cortei che attraversano le città per condannare le responsabilità americane nella guerra in Medioriente.
La reazione dei poteri è quella solita: la repressione. È il riflesso condizionato di chi si rifiuta di riconoscere il declino del proprio tronfio predominio. Così alla Columbia University le autorità accademiche, per la prima volta, hanno chiamato la polizia nel campus, occupato dagli studenti, provocando oltre cento arresti.
Lo stesso in altri atenei. E cominciano addirittura a levarsi voci che chiedono l’intervento della Guardia nazionale. Questo non solo non scoraggia i contestatori, ma stimola l’allargamento della protesta.
Si mobilitano, a portare solidarietà, anche numerose star di Hollywood. Tutto ciò sta mettendo in fibrillazione i commentatori schierati, sia americani che nostrani. Per esempio: Federico Rampini, l’italico giornalista embedded negli Usa, ha scritto sul Corriere della Sera: “L’America sente nell’aria un nuovo Sessantotto”. (Fosse vero, dico io).
Poi, per screditare i movimenti, parla di “organizzazioni pro-Hamas” (!?). La preoccupazione attraversa anche l’Atlantico, data la simultaneità delle mobilitazioni universitarie negli Stati Uniti e in Italia, con benefico contagio europeo (cosa che non si verificò nel 1968, quando le università americane precedettero le altre occidentali).
È interessante notare che l’inquietudine si sta incuneando anche nella Casa Bianca. L’incespicante Biden, tra una gaffe e l’altra, presagisce che il comportamento, corrosivamente opportunista, della sua Amministrazione sulla questione israelo-palestinese può fargli perdere la rielezione.
Il timore è che, di questo passo, la convention democratica di Chicago si troverà circondata da folle di giovani filopalestinesi, qualcosa di analogo a quanto successe 56 anni fa (allora contro la guerra in Vietnam) e il democratico Hubert Humphrey fu sconfitto da Richard Nixon nella corsa presidenziale.
La critica degli studenti – e di cospicua parte dell’opinione pubblica – riguarda non solo l’infamia della carneficina israeliana, ma anche l’autolesionistica furbizia americana dei due pesi e delle due misure: buffetti di condanna, a parole, di Netanyahu, niente sanzioni a Israele e imperterrita continuazione di forniture di armi per realizzare i massacri.
Ora anche l’America dice che bisogna dare vita allo Stato palestinese, che conviva in pace con quello israeliano. Bene: vuol dire che gli Usa… convocheranno a breve il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, per fare votare una risoluzione vincolante…, che verrebbe approvata all’unanimità, sulla creazione di quello Stato… Fino a quando questo non avverrà, l’ipocrisia americana peserà come un macigno. Ed è questa la ragione di fondo che alimenta le mobilitazioni degli studenti. Destinate, verosimilmente, a durare.