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Intervista a Riccardo Noury: “La guerra è diventata la norma: Italia terzo fornitore di armi a Israele”

Intervista a Riccardo Noury: “La guerra è diventata la norma: Italia terzo fornitore di armi a Israele”

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: la mattanza di Gaza ha raggiunto dimensioni apocalittiche: oltre 34.000 morti, tra cui 10.000 donne uccise e 14.000 bambini. E ora Israele ha avviato un’offensiva terrestre a Rafah. Il mondo sta a guardare e chi osa criticare Israele, in Italia come nei campus universitari di mezzo mondo, viene tacciato di antisemitismo.
L’ordine di evacuazione di 100.000 palestinesi, ammassatisi nel corso di questi mesi a Rafah a seguito di precedenti analoghi ordini, è stato il segnale dell’inizio dell’offensiva israeliana, per il momento parziale. Un’operazione terrestre su vasta scala produrrebbe un’ecatombe, lo hanno previsto e lo stanno ricordando in questi giorni le organizzazioni umanitarie e per i diritti umani.
Nessun piano di evacuazione potrà garantire sicurezza alla popolazione di Gaza, perché nella Striscia non c’è più alcun luogo dove rifugiarsi. Le zone di provenienza, nel centro e nel nord di Gaza, sono devastate e inabitabili. Per non contare le difficoltà di trasferire 610.000 bambini, persone con disabilità, persone anziane. Il mondo delle istituzioni, almeno in Occidente, sta a guardare, si limita a dichiarazioni di contrarietà o a inviti alla moderazione. Ma una parte del mondo invece è in fermento: le piazze, le università. Luoghi dove l’antisemitismo – che è una rivoltante ideologia contraria ai diritti umani – viene usato come strumento di repressione delle proteste. Si dovrebbe isolare e sanzionare adeguatamente coloro che incitano all’odio, sia online che nelle piazze, e proteggere la libertà d’espressione, favorendo lo svolgimento delle proteste pacifiche: invece, le forze di polizia, negli Usa come in Europa, le sgomberano brutalmente senza fare distinzione.

In Italia molto si discute e si polemizza sull’uso del termine genocidio in riferimento a ciò che sta avvenendo a Gaza. Visto da Amnesty International?
Questa parola, terribile, che rappresenta il massimo crimine di diritto internazionale, è al centro di uno scontro ideologico che la banalizza e la volgarizza: vedo negare con assolutezza che Israele stia compiendo un genocidio persone che un attimo prima hanno concionato sul Superbonus e un attimo dopo parleranno del premierato; altre affermare senza mezzi termini che, senza alcun dubbio, Israele ha commesso, sta commettendo e commetterà genocidio. Peraltro, quest’anno ricorrono 30 anni dal genocidio del Ruanda e 10 da quello, compiuto dallo Stato islamico, del popolo yazida. Nessuno ne parla. Non interessano. Ma tornando a Israele, per Amnesty International un rischio concreto e imminente di genocidio esiste. La Corte di giustizia internazionale deciderà coi suoi tempi. Ma attenzione: se stabilirà che Israele non ha commesso genocidio, resterà aperta tutta la questione dei crimini di guerra su cui sta indagando l’altro tribunale, la Corte penale internazionale. Mi auguro che le leadership di Israele e di Hamas siano presto raggiunte da mandati di cattura.

Quale è complessivamente lo stato dei diritti umani nei Territori palestinesi? Amnesty International ha documentato e denunciato a più riprese il regime di apartheid di fatto instaurato da Israele in Cisgiordania.
Tutti gli indicatori ci dicono che, all’ombra della guerra nella Striscia di Gaza, nella Cisgiordania occupata la situazione è ulteriormente peggiorata: dal punto di vista dei raid mortali dell’esercito israeliano, della violenza impunita dei coloni, del numero dei palestinesi in carcere (ormai 9500 tra condannati, in attesa di giudizio o in detenzione amministrativa), decine dei quali torturati e morti in custodia. L’occupazione della Cisgiordania è uno degli aspetti più crudeli dell’apartheid israeliano contro la popolazione palestinese: porre fine all’occupazione sarebbe il primo passo per porre fine all’apartheid.

L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione europea, Josep Borrell, ha annunciato che entro maggio altri paesi europei riconosceranno lo Stato di Palestina. Tra questi non c’è l’Italia.
Sono scelte politiche. L’Italia ha un ruolo prudente su questo tema, in ossequio a una politica filoisraeliana mai messa in discussione, neanche in questo periodo, che vede i palestinesi al massimo meritevoli di aiuti ma non titolari di diritti. Ma se, per ragioni politiche, a differenza del 72 per cento della comunità internazionale, l’Italia non intende riconoscere lo Stato di Palestina, ciò non implica la rinuncia a chiedere il rispetto dei diritti umani dei palestinesi.

Che altro si potrebbe fare di concreto?
Fermare l’invio di armi a tutte le parti in conflitto. Questo, per quanto riguarda l’Occidente, dunque noi, significa concretamente smettere di inviare armi a Israele. Diversi stati hanno preso questa decisione, per volontà politica o perché, come nei Paesi Bassi, costretti a farlo a seguito della pronuncia di un tribunale. L’Italia attualmente figura al terzo posto nella classifica dei fornitori internazionali di armi al governo israeliano. Il 5 aprile è stato depositato un ricorso civile al Tribunale di Roma per chiedere un intervento urgente della magistratura che vieti al governo italiano di essere complice con le violazioni di diritti umani da parte delle autorità israeliane a Gaza, ivi compreso l’ulteriore trasporto e vendita di armi. A promuoverlo, coadiuvato da un gruppo di avvocati dell’Ordine di Torino e sostenuto da diverse Ong, è Salahaldin M. A. Abdalaty, un avvocato palestinese di 49 anni che ha perso numerosi parenti a causa dei bombardamenti israeliani. Un mese dopo si è aggiunto un esposto-denuncia presentato alla Procura di Roma da alcuni gruppi della società civile. La presentazione dell’esposto è accompagnata da quella di una diffida al ministero degli Affari esteri che chiede la “immediata sospensione delle autorizzazioni rilasciate in favore di società di produzione e vendita di armamenti che commerciano con lo Stato di Israele e con enti di quello Stato, in quanto sono da ritenere illegittime perché contrarie alle norme del diritto interno ed internazionale”.
Questa del contenzioso giudiziario può essere una strada concreta per incidere su quanto sta accadendo a Gaza.

Dall’Ucraina al Medio Oriente, passando per altri 57 conflitti armati in corso. Il mondo è sempre più dentro una terza guerra mondiale a pezzi, per usare le parole di Papa Francesco. Tra un mese si vota per le europee, ma il dibattito in Italia si concentra su alleanze, candidature, colpi bassi. Il rispetto dei diritti umani non è nell’agenda della politica.
Il Rapporto 2023-2024 di Amnesty International, che abbiamo pubblicato il 24 aprile, presenta un quadro drammatico della situazione dei diritti umani a livello globale. Non è tanto il numero degli stati esaminati, 155, ad allarmare: grosso modo, è lo stesso degli ultimi anni. Ma mai come in questo ultimo biennio il sistema internazionale di protezione dei diritti umani, nato dopo la Seconda guerra mondiale con l’obiettivo di evitare altre sofferenze alle popolazioni civili, è collassato. La guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, il conflitto in Medio Oriente e quelli, meno noti, in Asia e in Africa hanno fatto registrare una sequenza infinita di crimini di atrocità: attacchi diretti contro centri abitati, attacchi mirati contro infrastrutture civili fondamentali come ospedali e centrali elettriche, trasferimenti forzati di popolazioni, uccisioni illegali di civili, cattura di ostaggi e loro prolungata detenzione. Hanno contribuito a questo sfacelo anche l’inazione e i consueti doppi standard del Consiglio di sicurezza: gli Usa hanno bloccato per mesi risoluzioni per risolvere la crisi in Medio Oriente, proteggendo così Israele mentre continuavano a inviargli armi. In sintesi, mentre singole leadership irresponsabili promuovono i conflitti, c’è un fallimento di leadership collettiva nel prevenirli e, una volta scoppiati, nel fermarli. È come se uno stato di cose eccezionale – la guerra e i suoi crimini, la militarizzazione persino del vocabolario – fosse diventato la norma. È vero, la tutela dei diritti umani è assente dal dibattito (la loro violazione, invece, lo è, ovunque corroborata da una narrazione criminalizzante nei confronti del dissenso). Eppure, tra un mese ci sarebbe l’occasione buona per invertire la rotta e riportare avanti la macchina del tempo: le elezioni parlamentari europee. A questo proposito, Amnesty International ha lanciato un suo “Manifesto elettorale” in quattro punti: un’Unione europea fermamente basata sul rispetto dei diritti umani di tutte le persone; una politica europea solidale nei confronti delle persone migranti e rifugiate; una politica estera europea centrata sulla promozione e sulla protezione dei diritti umani nel mondo; un’azione rapida e concreta per contrastare il cambiamento climatico.

Qual è l’aspettativa di Amnesty International?
Auspichiamo che le candidate e i candidati facciano propri i punti del nostro “Manifesto elettorale”. In un momento storico in cui i principi fondamentali dei diritti umani e la preminenza del diritto sono a rischio, è indispensabile che le persone facciano sentire la loro voce. Le elezioni parlamentari europee avranno un ruolo decisivo nella vita quotidiana futura di milioni di persone. Per dare loro una prospettiva più luminosa, equa e sostenibile, l’Unione europea deve porre i diritti al centro dei suoi programmi d’azione. Vogliamo un Parlamento europeo formato da persone che sosterranno e promuoveranno i diritti umani in casa e all’estero e che saranno pronte a chiamare le istituzioni europee a rendere conto dei loro fallimenti. Che, temo, non mancheranno.