“È un’accelerazione dettata da ragioni elettoralistiche. Non potendo rivendicare risultati sul terreno economico e sociale cercano di avanzare sul terreno pericoloso del premierato e dell’autonomia differenziata per aver qualcosa da rivendicare prima delle europee. Vi chiedo di far muro con i vostri corpi e le vostre voci”: la segretaria del Pd arringa i senatori del suo partito, riuniti in assemblea straordinaria perché in aula è appena approdata quella che Giorgia Meloni chiama, con scarsa fantasia, la madre di tutte le riforme, l’elezione diretta del premier.
Il muro di voci si chiama ostruzionismo. L’opposizione ha presentato 3mila emendamenti. Ieri, appena aperta la discussione generale, sul tavolo del presidente La Russa sono piovuti 70 interventi: 9 della maggioranza, gli altri dell’opposizione e oggi, con la prosecuzione della discussione generale, la musica non cambierà.
I corpi invece saranno in piazza il 2 giugno, in una manifestazione a Roma contro premierato e autonomia: “Sembrano in contraddizione ma hanno in comune la legge del più forte”.
La risposta di Giorgia Meloni arriva poco dopo, sempre dal Senato. Conclude il convegno sul premierato. Evita sarcasmi, dialoga direttamente con Luciano Violante che nel suo intervento si era mosso all’opposto esatto di Schlein, segnalando nodi irrisolti nella proposta di legge e suggerendo correzioni.
Difende la riforma insistendo molto sulla necessità della stabilità per l’economia e lo sviluppo. Mostra il volto più dialogante possibile, in particolare sulla necessità di resituire al Parlamento un ruolo del quale è stato spogliato già, ma dalla decretazione d’urgente non dalla proposta di elezione diretta.
Risponde a Violante, che aveva battuto sull’importanza del ritorno alle preferenze nella legge elettorale facendo capire che lei proprio quella strada intende battere. Ma quando cita la segretaria del Pd, senza nominarla, cambia tono: “Ma come si fa a dialogare con chi vuole fermare la riforma con i propri corpi? Non so se devo prenderla come una minaccia o come una prova di assenza d’argomenti”.
In ogni caso è probabile che nella denuncia di una accelerazione da campagna elettorale del premierato la segretaria del Pd abbia torto. È stato così davvero ma le cose sono cambiate. Basta ascoltare i presidenti delle Camere, riuniti in gran convegno con la stessa premier proprio al Senato, per accertarsene.
Quello della Camera, il leghista Fontana, ha il ramoscello d’ulivo in bocca: “Senza paralizzare il Parlamento bisogna confrontarsi per cercare il più ampio consenso delle forze politiche: la Costituzione è di tutti”.
Quello del Senato La Russa, in mattinata era stato meno accomodante ma neppure tanto: “Nessuna accelerazione immotivata né ritardi strumentali”. Ma senza tagliole e ghigliottine, ricercando almeno in apparenza il dialogo, il traguardo sarà probabilmente tagliato a metà giugno: poco prima e non poco dopo le europee.
Identico discorso vale per l’altra riforma in Parlamento, anzi in dirittura d’arrivo alla Camera per l’approvazione definitiva, l’autonomia differenziata. La discussione inizierà il 21 maggio. Gli emendamenti a Montecitorio sono 2mila.
Senza la mannaia l’approvazione difficilmente arriverà prima della chiusura delle urne. Per la terza grande riforma in agenda, quella della Giustizia, non si tratta di approdare, neppure alla prima delle quattro approvazioni, due per ogni Camera, necessarie quando si mette mano alla Carta. Si tratta piuttosto di salpare e la nave è ferma in cantiere da mesi.
Qualche giorno fa sembrava che il governo avesse davvero deciso di decidersi, presentando almeno il testo al cdm prima delle europee. Ma con le altre due riforme ferme al semaforo e i magistrati di destra che in seno all’Anm fanno le barricate contro la separazione delle carriere e l’intervento sull’obbligatorietà dell’azione penale a braccetto con le toghe dell’altra sponda è facile prevedere che il sospirato primo passo dovrà attendere ancora.
Di emendamenti il governo ne presenterà fondamentalmente uno. Non aggiungerà nulla di nuovo ma chiarirà un punto che nel testo attuale è ambiguo e confuso: la norma detta antiribaltone. Specificherà che, se il premier eletto venisse sfiduciato, sarà lui stesso, o lei stessa, a decidere se passare la mano a un altro eletto nella sua coalizione oppure se sciogliere le camere e tornare alle urne.
Il nodo è stato sciolto un po’ come a Gordio, affidando tutto a un premier che, senza un intervento drastico sul ruolo del Parlamento, sarà davvero potentissimo. Anche a questo servirebbe una posizione come quella che ha assunto ieri Violante, critica e dialogante allo stesso tempo. Ma non è questa l’aria che tira nell’opposizione.