Giovanna Marini è stata compositrice, cantautrice, interprete, ricercatrice, ogni cosa in nome del suo sguardo sul canto popolare e talvolta militante. Infine, ancora, insegnante. Ha riassunto in sé questi doni insieme. Sia detto con pertinenza storiografica e politica.
Ha fatto con la musica di tradizione orale ciò che Italo Calvino aveva realizzato con il corpus delle fiabe italiane, Pier Paolo Pasolini con il “canzoniere” della poesia dialettale, Dario Fo con il teatro dei “bifolchi” perfino d’ascendenza medievale.
A lei si deve il racconto dell’altra Italia: ribelle, assorta e insorta, appunto. “L’umile Italia”, la medesima che Paolo Volponi riconosceva, sulle colonne di questo stesso giornale, alla voce di Pasolini il giorno della morte all’Idroscalo. Un esempio di lotta e di presidio canoro: il canto generale popolare, le sue ballate. Una voce incisa nei solchi de “I Dischi del sole”, “I dischi dello Zodiaco”, “Le Chant du Monde”, oggi quasi impossibile da restituire nella sua perduta corale pienezza.
Giovanna Marini se ne va a 87 anni dopo una breve malattia. Era nata a Roma il 19 gennaio 1937, figlia del compositore Giovanni Salviucci, allieva del marchese di Salobreña Andrés Segovia, cui si deve d’avere dato onore orchestrale e solistico alla chitarra, un tempo ritenuto strumento “vile”.
Il suo nome e il suo canto accompagnano lo stesso lavoro di Roberto Leydi, Gianni Bosio, Cesare Bermani, Caterina Bueno, Diego Carpitella, protagonisti del “Cantacronache”. Lei cantautrice e insieme ricercatrice etnomusicale, con loro nella magica “terra del rimorso” di Ernesto De Martino, sguardo rivolto alla tradizione folclorica nazionale, all’epopea e all’epica della “canaglia pezzente” ancora.
I suoni modulati del rito, del dolore e della protesta. Occorre ripensarla protagonista nel cartellone di “Ci ragiono e canto”, avventura narrativa musicale e poetica, recitar-cantando itinerante voluto da Dario Fo sotto le insegne del Collettivo teatrale “Nuova Scena”.
Accanto, tra gli altri, a Rosa Balistreri, il cantastorie Ciccio Busacca, Paolo Ciarchi, Franco Coggiola, il poeta Ignazio Buttitta, anche questo un tempo altrettanto spettacolare e insieme militante andato perduto, memoria esatta a ridosso della rivolta del Sessantotto e della lunga scia da questo impressa fino ai primi anni Settanta con spirito assembleare; le chitarre di Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli, Gualtiero Bertelli e Fausto Amodei ad accompagnare i giorni, appunto, cantati.
Il suo nome legato all’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano, il debito musicale verso Giovanna Daffini cui deve cifra e modi del canto contadino delle mondine. Poi, negli anni ‘70 la nascita della prima scuola popolare di musica in Italia, a Testaccio, quartiere romano di tradizione operaia, giallorossa e antifascista, lo stesso dove nasce, ma questa è già un’altra storia, Gabriella Ferri.
Al Folkstudio, storico locale di via Garibaldi a Trastevere, avrà modo di accompagnare il debutto di Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Ernesto Bassignano e Giorgio Lo Cascio. Proprio De Gregori, nel 2002, la vorrà in un album antologico, “Il fischio del vapore”, dove insieme intonare i brani che alla voce e all’impegno “civile” e memoriale di Giovanna Marini appartengono, “I treni per Reggio Calabria”, “Lamento per la morte di Pasolini”.
Come in una melopea, come in un oratorio. Nel 1964, durante il Festival dei Due Mondi di Spoleto, il suo “Bella ciao”, ideato da Roberto Leydi e Filippo Crivelli, sarà ragione di scandalo, censura e interrogazioni parlamentari, inaccettabile agli occhi dei benpensanti presenti in piazza l’esecuzione di “O Gorizia tu sei maledetta”, la strofa espressamente antimilitarista che così restituisce: “Traditori signori ufficiali, che la guerra l’avete voluta, scannatori di carne venduta, e rovina della gioventù”, ne seguirà anche una denuncia contro i promotori dello spettacolo per vilipendio delle forze armate.
Anni dopo, ed è già il 1989, in occasione del bicentenario della rivoluzione francese, metterà in musica la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Non a caso, dal 1991 al 2000, Giovanna Marini terrà la cattedra di etnomusicologia presso l’Università di Parigi VIII-Saint Denis.
Nel 2015, con la Scuola Comunale di Musica di Monte Porzio Catone, è il 1º “Festival del Canto Sacro, Cantate Domino”, dove si contamina musica colta e musica contadina, con l’intento di “far incontrare la musica popolare e contadina con la musica classica per esprimere il Sacro attraverso canti di tradizione orale, corali polifoniche e gruppi vocali”.
Altrettanto le dobbiamo ciò che ha composto per teatro e per il cinema: “Fabbrica”, destinata alla scena di Ascanio Celestini, e le colonne sonore per Citto Maselli a partire dal 1967: “Lettera aperta a un giornale della sera”, “Storia d’amore”, “Cronache del terzo millennio”, tra le altre. Nel 1980 invece per “Café Express” di Nanni Loy. Tra i molti riconoscimenti da Giovanna Marini ricevuti, nel 1983, il Premio Tenco, e ancora, nel 2003 la Targa Tenco.
Quell’anno, proprio su “l’Unità”, Leoncarlo Settimelli, giornalista e cantautore cui si deve fra molto altro un’antologia dei canti anarchici, socialisti e comunisti, ne restituiva l’ampiezza rilevando “questo suo superamento della ‘forma-canzone’, ma Giovanna non si ferma qui e nella Torre di Babele arriva fino alla distruzione delle Twin towers di New York, in una singolare composizione in cui abbandona lo stile dei cantastorie per esprimersi in una serie di metafore, perché la Marini, con quei rapidi dietro-front nei quali è riconosciuta maestra, con quegli scarti spiazzanti in cui la sostiene un vivo senso dell’umorismo, alterna le ballate a piccole (si fa per dire) canzoni. E lo stesso vale per ‘Padrone mio’, una canzone di Matteo Salvatore che riflette lo stato di soggezione dei lavoratori stagionali pugliesi nei confronti del padrone, al quale dicevano ‘se sbaglio dammi pure le botte, voglio la morte ma nun me caccia’. Composizione miracolistica, un po’ come quando Giovanna raccontava di Sant’Antonio e della sua lotta nel deserto con il Demonio, all’inizio della propria attività al Folkstudio di Roma”.
Nella mia privata teca di filmati la si vede accanto a Fausto Amodei e Ivan Della Mea, insieme intonano “Per i morti di Reggio Emilia”, così nella dopostoria di una serata del tempo già berlusconiano tra amici, o forse tra “compagni”, come si sarebbe detto quando c’era modo ancora di pronunciare con pienezza melodica e politica “ci ragiono e canto”.