La rubrica

Israele dovrà cedere: terra ai palestinesi in cambio di pace, la teoria di Ami Ayalon

La storia ha dimostrato che nessuno dei due popoli è in grado di eliminare l’altro. Sono “condannati” a convivere. Comincia a farsi strada l’idea, da una parte e dall’altra, che convivere in pace è di gran lunga preferibile piuttosto che creare montagne di cadaveri.

Editoriali - di Mario Capanna - 11 Maggio 2024

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Israele dovrà cedere: terra ai palestinesi in cambio di pace, la teoria di Ami Ayalon

Non è mai alcuna cosa sì disperata che non vi sia qualche via da poter sperare.
(N. Machiavelli)

Nessun dramma può durare all’infinito: prima o poi deve cedere al suo superamento. È avvenuto così, ad esempio, per le due guerre mondiali. Sarà così anche per la tragedia che coinvolge palestinesi e israeliani.

La storia ha dimostrato che nessuno dei due popoli, fortunatamente, è in grado di eliminare l’altro. Sono “condannati”, perciò, a convivere, volenti o nolenti. Al di là delle apparenze, comincia a farsi strada, sebbene faticosamente, l’idea, da una parte e dall’altra, che convivere in pace è di gran lunga preferibile piuttosto che creare montagne di cadaveri.

La storia insegna pure che, a seguito delle grandi tragedie umane, può aprirsi un’alternativa, altrimenti insperata. Esempi: dopo essersi scannati per secoli sui campi di battaglia, tedeschi e francesi, finita la Grande guerra, capiscono che è possibile costruire la pace, e diventano, con l’Italia, il nucleo fondante della Comunità europea; così come, dopo la guerra del Kippur, si realizza l’accordo di pace, prima inimmaginabile, tra Egitto e Israele.

Considero un segno dei tempi che un israeliano non comune – ex capo di stato maggiore della marina, pluridecorato eroe di guerra, ex capo dello Shin Bet (il servizio segreto interno) dal 1995 al 2000 – sia giunto alle conclusioni che io, nel mio piccolo, sostengo da tempo. Ami Ayalon è il suo nome.

La lunga intervista, che ha rilasciato l’altro giorno, merita di essere riportata nei suoi passi salienti. Afferma: “La storia di questo Paese ci insegna che solo dopo una grande crisi siamo in grado di cogliere le opportunità che abbiamo davanti a noi”.

Aggiunge subito dopo: “Il 7 ottobre Hamas sapeva bene che ci sarebbe stata una reazione da parte di Israele e che sarebbe stata violenta. Ci hanno spinto in una trappola, portandoci dentro Gaza e nascondendosi tra la gente, in modo che facessimo più vittime civili possibili, per dire al mondo che questo è Israele”.

Secondo lui l’unico modo per uscirne è “creare un orizzonte per i due Stati”. Per riuscirci, sostiene, occorrono le elezioni per eleggere una nuova leadership israeliana, e la liberazione di Marwan Barghouti che “nei sondaggi è l’unico che batte sempre Hamas, crede nei due Stati ed è un leader riconosciuto per la sua militanza: solo una persona con questo profilo potrà fare scelte difficili per la sua gente”.

Certo, questa posizione è oggi ancora minoritaria in Israele. Ma è basilare che ci sia, e la speranza è che potrà farsi strada nel prosieguo della guerra in corso e, soprattutto, dopo la sua fine. L’analisi di Ayalon prosegue con lucidità: “Oggi il 70-80 dei palestinesi appoggia Hamas: ma non perché ne condivida l’ideologia estremista, bensì perché ai loro occhi sono i soli che combattono per uno Stato palestinese. Lo dimostra il fatto che lo stesso 80 per cento dei palestinesi rifiuta la sharia che invece Hamas vorrebbe introdurre. Per quanto riguarda gli israeliani, più dell’80 per cento vuole una separazione, un confine netto, con i palestinesi: non mi interessa se è perché li amano o li detestano. Facciamo questo confine”.

Una Oslo completamente rinnovata, senza ipocrisie, furbizie, tergiversazioni: ecco ciò che è necessario e possibile, fra oggi e domani. Esiste una evoluzione anche all’interno di Hamas. Ci sono dichiarazioni ufficiali secondo cui, nel caso di creazione dello Stato palestinese, è pronta a disarmare le proprie milizie. È, questo, un altro elemento di rilievo.

Forse mai come adesso, al di là delle apparenze, le placche tettoniche del Medioriente possono stabilizzarsi, e il terremoto finire. Non sono ottimista oltre misura, vedo le nubi nere che sovrastano il cielo. E però: l’attuale governo di Israele, dove “i ministri giocano a chi è più fascista” (definizione del giornale Haaretz), scomparirà al massimo alla fine della guerra, questo è certo.

Inoltre – altro fatto rilevantissimo – l’isolamento di Israele nel mondo non è mai stato così profondo e percorre vistosamente anche la diaspora ebraica. Sta crescendo un contesto che richiama da vicino il crollo dell’apartheid in Sudafrica.

La fine, lì, sopraggiunse non tanto per i successi organizzativi e militari degli oppositori, ma quando la minoranza bianca si ritrovò sola, sul piano internazionale, con la sua prepotenza. Adesso persino gli Usa sono costretti a prendere qualche distanza dagli sterminatori di Gaza e Cisgiordania.

L’ipocrisia delle ragioni tattiche (Biden avverte che può perdere l’elezione in alcuni Stati chiave per il dissenso delle comunità musulmane) non cela la profondità della contraddizione: Washington è costretta a prendere atto che il cane da guardia contro centinaia di milioni di arabi non ubbidisce più (completamente) al padrone.

Certo, questi continuerà a difendere e nutrire il mastino, ma si infittiscono i segnali per cui d’ora in poi in Medioriente molte cose non saranno più come prima. Per il semplice motivo che si è passato il segno. Di troppo, e per troppo tempo. In ogni caso: è della massima importanza che a riprendere vigore sia oggi il principio terra in cambio di pace, l’unica strada salvifica.

Certi intellettuali faciloni – alcuni ingenui in buona fede, altri lestofanti mentali – sostengono che il tema dei due Stati è obsoleto e che la cosa migliore sia pensare a un unico Stato interetnico, dove convivano palestinesi e israeliani. Una illusoria chimera, del tutto irrealizzabile oggi, dati i fiumi di sangue e di odio scorsi per decenni. Ed è, insieme, un eccellente grimaldello per minare alla radice l’unica, realistica soluzione imprescindibile, quella appunto dei due Stati.

Realizzati i quali, in un domani tutto da costruire, magari trascorse cinque o sei generazioni, sarà forse possibile immaginare una sorta di federazione fra le due entità statuali, una volta realizzata bene la pacifica convivenza. Decisivo, adesso, è non chiudere la possibilità che si apre. Al culmine della disperazione, la speranza può accendersi. Una piccola fiammella in grado rischiarare la notte, prima del sorgere del sole.

11 Maggio 2024

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