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Fioccano “Paesi sicuri”: come il governo aggira il diritto di asilo, conseguenze gravi sui rifugiati

Fioccano “Paesi sicuri”: come il governo aggira il diritto di asilo, conseguenze gravi sui rifugiati

Il diritto dell’Unione europea in materia di asilo prevede da tempo la nozione di paese di origine sicuro del richiedente asilo.

Un paese di origine del richiedente è definito sicuro “se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” (allegato n. 1 Direttiva 2023/32/13).

Al fine di effettuare tale valutazione ed eventualmente classificare un paese quale sicuro in generale si deve tenere conto, tra l’altro, della misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante l’analisi delle pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese esaminato ed il modo in cui tali disposizioni sono applicate in concreto, nonché del “rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea” (allegato n. 1).

Classificare uno stato terzo come di origine sicura non significa che la domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di tale stato non vada comunque esaminata in modo “individuale, obiettivo ed imparziale” (Direttiva cit. art. 10 paragrafo 3), ma solo che il Paese può essere ritenuto sicuro se dall’esame della domanda emerge che il richiedente “non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel paese non sia un paese di origine sicuro nelle circostanze specifiche in cui si trova il richiedente stesso” (Direttiva cit. art. 36 lettera b).

È dunque onere del richiedente quello di circostanziare, e ove possibile documentare i gravi motivi che lo riguardano idonei a superare la presunzione di sicurezza generale sul paese di provenienza.

Se ragioni però emergono per l’autorità amministrativa che esamina la domanda rimane fermo il dovere di cooperare attivamente all’accertamento dei fatti, in applicazione del principio generale dell’esame delle domande di asilo (art 8 co 3 del D.vo n. 25/2008). In altre parole nessun automatismo volto a denegare le domande in ragione della sola provenienza del richiedente può essere ammesso.

Una corretta applicazione dei principi giuridici sopra indicati dovrebbe portare gli Stati UE ad un uso assai limitato della nozione di Paese di origine sicuro, considerato che i requisiti per dichiarare tale un Paese terzo sono assai stringenti e che il rispetto dei diritti umani fondamentali vive da tempo una fase di progressivo e generale deterioramento (vedasi Amnesty International, Rapporto 2022-2023. La situazione dei diritti umani nel mondo).

La nozione di paese di origine sicuro (che rimane una nozione controversa e scivolosa) è stata infatti introdotta al solo scopo di frenare possibili utilizzi strumentali delle domanda di asilo da parte di cittadini di paesi terzi che palesemente non hanno alcun bisogno di protezione, e non già per introdurre surrettiziamente una procedura generale di esame delle domande di asilo che deroghi dalle garanzie fondamentali.

Purtroppo, come sempre più spesso accade nell’Unione Europea diversi stati UE hanno invece forzato la normativa unionale elaborando proprie liste di paesi di origine sicuri non tanto sulla base dei criteri giuridici a cui avrebbero dovuto attenersi bensì sulla base di obiettivi politici del tutto estranei al procedimento di riconoscimento del diritto d’asilo.

Dopo aver scelto per molti anni una linea di apertura non introducendo nel proprio ordinamento la nozione (che è facoltativa) di paese di origine sicuro, l’Italia ha adottato tale nozione con il D.L. n. 113 del 2018 come convertito dalla L. n. 132 del 2018.

A seguito di tale introduzione, con DM 17 marzo 2023 è stata istituita la prima lista di paesi di origine sicura, appena arricchita di nuovi ingressi con il nuovo DM 7 maggio 2024. Attualmente l’elenco dei Paesi di origine sicuri prevede dunque il seguente lungo elenco: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Camerun, Capo Verde, Colombia, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia.

Una verifica condotta con distaccata oggettività giuridica sullo stato del rispetto dei diritti fondamentali nei paesi inseriti nella lista non potrebbe non evidenziare come tali inserimenti non rispettino in alcun modo i parametri di legittimità posti dal diritto dell’Unione Europea.

In particolare colpisce la presenza in tale elenco di Paesi nei quali sono presenti generalmente e costantemente persecuzioni, o tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, o pericolo a causa di situazioni di violenza indiscriminata in ragione di conflitti armati interni o internazionali al punto tale che alcuni Paesi possono persino essere collocati tra i Paesi più problematici del mondo per ciò che riguarda il rispetto dei diritti umani fondamentali; si pensi all’Egitto, appena inserito con il DM del maggio 24, un Paese nel quale “migliaia di persone critiche verso il governo o percepite come tali rimanevano arbitrariamente detenute e/o perseguite ingiustamente. I casi di sparizione forzata e di tortura e altro maltrattamento sono rimasti dilaganti” (Rapporto Amnesty International 2023) oppure come la Nigeria, caratterizzata tuttora da una condizione di violenza generalizzata in molte aree del paese.

O il caso, non meno clamoroso, della Tunisia, Paese rapidamente rotolato verso una pesante autocrazia e nel quale “sono continuate le gravi violazioni dei diritti umani, comprese le restrizioni alla libertà di parola, la violenza contro le donne e le restrizioni arbitrarie dovute allo stato di emergenza del Paese” (Human Rights Watch (Hrw), World Report 2023).

La predisposizione e l’aggiornamento dell’elenco dei paesi di origine sicuri effettuato dal Governo italiano appare pertanto rispondere non al dovere di rispettare precisi criteri giuridici bensì al conseguimento di obiettivi politici (ad esempio il mantenimento delle relazioni con tali stati o il tentativo di limitare il numero delle domande di asilo) del tutto estranei al procedimento di riconoscimento del diritto d’asilo, in evidente contrasto con quanto previsto dal diritto dell’Unione.

In particolare appare sempre più evidente che l’inserimento di un Paese nella lista dei paesi di origine sicuri sia collegato al fatto che da quel Paese si registra una netta tendenza all’aumento delle domande di asilo.

Si verifica così una torsione, piuttosto forte, degli strumenti di diritto piegati ad altri fini politici e il messaggio inequivocabile indirizzato alle Commissioni territoriali per l’esame delle domande di asilo (che in Italia hanno una debole indipendenza e sono invece fortemente permeabili a pressioni di natura politica) diviene quello di rigettare il maggior numero possibile di domande di asilo provenienti da dati Paesi in modo da attuare una sorta di politica della deterrenza.

Ciò ha plurime conseguenze nefaste: la prima è quella di produrre un sistema di esame delle domande di asilo a doppio canale; prima, e con chiaro pregiudizio verso di esse, vanno smaltite in via accelerata tutte le domande di asilo di chi proviene dai paesi di origine sicuri, divenute nel frattempo la maggioranza delle domande (e non, come dovrebbe essere, in una logica corretta, un numero contenuto in quanto frutto di valutazione su situazioni particolari) e poi tutte le altre domande lasciate ad attendere molti mesi (compresi i casi prioritari per vulnerabilità o manifesta fondatezza).

La seconda conseguenza è l’aumento dei contenziosi giudiziari. Come richiamato più volte dalla giurisprudenza spetta al giudice l’esame di merito di tutti i profili della domanda di asilo che è stata rigettata, e dunque anche la valutazione se ad essa erano o no applicabili i criteri per ritenere se nel caso specifico il paese di origine del richiedente fosse realmente sicuro oppure no.

Il ruolo di vigilanza del magistrato sul rischio di indebita estensione di applicazioni illegittime della normativa sul paese di origine sicuro diviene così sempre più importante, ma anche più oneroso sia per la cronica mancanza di risorse che per lo stesso aumento del contenzioso.

In parallelo cresce il numero di cittadini stranieri la cui condizione giuridica nel nostro Paese rimane sospesa per anni dentro un’attesa su cosa sarà il loro futuro cosi lunga che pare non avere mai fine.

In questa ossessiva torsione delle norme che travalica ogni buon senso intravedo due finalità: la prima è di natura più prettamente ideologica, ovvero la tendenza dell’Esecutivo a cercare in tutti i modi di far prevalere la propria normativa secondaria (laddove ha il potere di emanarla come nel caso della individuazione dei paesi di origine sicuri) sulla norma primaria interna e persino su quella europea verso la quale è evidente l’insofferenza.

La seconda, che è ben riscontrabile in tutti gli aspetti della gestione dell’immigrazione e dell’asilo, è quella di generare difficoltà al funzionamento del sistema pubblico di accoglienza e di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati per poter sfruttare sul piano politico lentezze, contraddizioni, carenze e distorsioni di un sistema che non funziona perché viene posto nelle condizioni di non funzionare.