Ce la mette tutta Giorgia Meloni per scacciare da Palazzo Chigi gli spettri del ‘900. Quando pensa che, tramite una semplice spruzzatina di politica pop, abbia ormai ottenuto il diritto all’oblio circa le radici ideologiche della destra con la fiamma, ecco allora che l’affondo inatteso di Liliana Segre (“non posso e non voglio tacere”) fa saltare per incanto il gioco della mistificazione.
Le civetterie sulle chat con le mamme delle amiche di Ginevra, i giri infiniti in ogni angolo d’Europa per scattare la foto con la baronessa tedesca, si convertono rapidamente in una vana propaganda dinanzi al momento di irresistibile verità che la voce della senatrice a vita riesce a scolpire in Aula.
Neanche gli attestati di legittimazione piovuti sulla sua testa direttamente dalla bocca di Biden, in segno di gratitudine per qualche missile spedito a Kiev, mettono Giorgia al riparo dai fantasmi della guerra civile europea, che si affollano ingombranti senza che nessun diversivo possa scacciarli via.
Dopo aver incassato il sostegno degli editorialisti del Corriere, e aver archiviato soddisfatta le glosse benevole stilate apposta per lei dai collaborazionisti moderati del Pd, Meloni accusa il colpo (alto).
A cent’anni esatti dall’omicidio di Matteotti, peraltro, è costretta a raccogliere i cocci della sua operazione simpatia, demolita alla base da un discorso elevato, in difesa – di nuovo – della democrazia parlamentare aggredita.
La “sperimentazione temeraria” del governo, ha chiarito Segre, partorisce un testo che non è emendabile in alcun modo – lo sanno perfettamente anche i pontieri, che si iscrivono ad una partita truccata.
La posta in palio della “madre di tutte le riforme” si può cogliere solo riafferrando il linguaggio del secolo breve: democrazia costituzionale versus autocrazia. Il volto scopertamente autoritario del disegno Casellati è tangibile nella mistica del capo, il quale, ricevuti i galloni, riconduce i tre poteri dello Stato ad uno soltanto: quello impersonato dal leader acclamato dalle urne.
Il premier forte viene santificato come il signore della stabilità che va sciolto da vincoli, forme, procedure, controlli. Plebiscitato un “Cesare”, il parlamento quale potere autonomo si dilegua, le Camere sopravvivono solamente come luogo per il passatempo di deputati nominati dal capo e da lui dipendenti.
La legge elettorale, che distribuisce il premio di maggioranza senza neppure prevedere una soglia minima, è così manipolatoria che al confronto, punzecchia Segre, persino la legge Acerbo “sarebbe troppo democratica”.
Inoltre, col nuovo assetto la Consulta diventa il territorio di conquista della maggioranza che grazie alla ferrea logica dei numeri può inghiottire ogni spazio di pluralismo istituzionale. Il presidente della Repubblica, d’altro canto, deve anch’egli ammainare i delicati compiti di garanzia, ritirare la funzione di gestione creativa delle crisi e rinunciare al delicato potere di scioglimento.
L’inquilino del Quirinale è poi costretto a “guardare dal basso in alto” il premier eletto. Attraverso semplificazioni poco compatibili con un’attenta chirurgia costituzionale, la quale autorizzerebbe solo un intervento incrementale sulla Carta, il leader vittorioso è innalzato a irrefrenabile depositario del “dominio assoluto”.
Il chiacchiericcio sulla democrazia decidente, che richiede il conferimento al popolo di un potere sovrano in più, viene smascherato da Liliana Segre. Ai cantori della bella modernità che si avvale dell’unzione di un organo monocratico dalle facoltà illimitate, la senatrice a vita ricorda che “anche le tribù della preistoria avevano un capo”.
È proprio così: il recupero di riti ancestrali, che spezzano la razionalità occidentale del potere astratto e impersonale, viene venduto come uno straordinario avanzamento della post-modernità. Le immagini della Segre graffiano talune firme del Corriere che, a mo’ di resa preventiva, già evocano in caso di referendum l’astensione di quel 4-5% di cittadini appartenenti al “centro” ragionevole e dialogante.
E però il tentativo di accostare la riforma, che distrugge la separazione dei poteri come condizione irrinunciabile dello Stato di diritto, alla mobilitazione democratica, che si aggrappa alle risorse della Costituzione per conservare le garanzie liberali e la rappresentanza parlamentare, si rivela una trovata imbarazzante. C’è solo da ringraziare Liliana Segre per aver fatto luce sul significato dello scontro senza reticenze né giravolte verbali furbesche.