Le strategie della premier

Separazione delle carriere, il bluff della riforma: la finta di Meloni che vuole prima il premierato

La premier annuncia che la riforma sarà presentata il 29 maggio, ma sembra un bluff: difficilmente il testo potrà andare in aula se prima non si completa l’iter del premierato...

Politica - di David Romoli - 16 Maggio 2024

CONDIVIDI

Separazione delle carriere, il bluff della riforma: la finta di Meloni che vuole prima il premierato

Alla separazione delle carriere non ci credeva nessuno, nemmeno dopo il vertice di due settimane fa nel quale la premier aveva annunciato la decisione di presentare il ddl governativo sulla riforma della giustizia prima delle europee. Di ufficiale non c’era niente: retroscena e indiscrezioni. Donzelli il fedelissimo frenava, Insomma, il solito annuncio rumoroso e vuoto.

Ieri Meloni ha specificato la data nella quale dovrebbe essere presentata la riforma: 29 maggio. Nel Palazzo molti non ci credono neppure dopo l’ultimo passaggio e la ragione di tanto scetticismo è evidente: Meloni è già impegnata in uno scontro da guerra santa sul premierato e sta cercando, per il poco che è possibile, di abbassare la tensione nel dibattito al Senato evitando forzature di fronte ai 3mila emendamenti e all’ostruzionsimo dell’opposizione.

Missione impossibile, del resto: ieri il M5s ha annunciato l’occupazione dell’aula per quando, il 22 maggio, inizieranno a essere votati gli emendamenti. In questa situazione la stessa premier non aveva nascosto nel passato anche recente l’intenzione di passare alla riforma della giustizia solo dopo aver incamerato il premierato. Dunque nell’ultimo scorcio di legislatura. Troppo tardi per portare la riforma a termine.

È possibile che gli scettici abbiano ragione e che gli annunci delle ultime settimane siano più scena che altro ma la sensazione che invece qualcosa sia cambiato è indiscutibile, pur senza ancora certezza.

Anche se Meloni personalmente non ha mai parlato di giustizia a orologeria per gli arresti in Liguria molti nel suo partito, a partire da ministri di peso come Crosetto e Musumeci lo hanno fatto. La premier non ha intenzione di fare quadrato intorno a Toti ma neppure di ignorare un attacco che, anche se non può ammetterlo pubblicamente, considera nella tempistica dettato dall’ostilità nei confronti del suo governo.

Sa che le posizioni della magistratura inquirente, quella più fermamente ostile alla separazione delle carriere non sono mai state così deboli negli ultimi trent’anni. Ieri si è senza dubbio compiaciuta leggendo le dichiarazioni di Antonio Di Pietro, l’ex magistrato già simbolo di Mani Pulite, secondo cui la separazione “non lede l’indipendenza della magistratura”.

C’è però un elemento in più, probabilmente decisivo: l’offensiva politica a tutto campo di Forza Italia. Il partito dato per morto con il suo fondatore, e che già negli ultimi anni di Berlusconi non se la passava bene, ha dimostrato di poter sopravvivere al sovrano scomparso, sente di avere la corrente a suo favore, e si vedrà solo il 9 giugno se la sensazione sia fondata o meno. Dunque, dopo essersi accontentata a lungo di un ruolo minore, sgomita ora per tornare protagonista.

La vicenda del Superbonus è da questo punto di vista eloquente. Ieri Tajani ha assicurato che si è trattato solo di “una questione di principio” e che nella maggioranza non ci sono divisioni di sorta. La tesi stavolta è però letteralmente insostenibile. Lo scontro sulla retroattività del decreto è stato invece il più duro all’interno della maggioranza dalla nascita del governo in poi.

Il partito azzurro ha scelto di astenersi solo quando, a prezzo di funambolismi d’ogni sorta, il governo era riuscito ad assicurarsi comunque la prevalenza numerica, sia contrattando con il senatore delle autonomie Patton, che non ha ottenuto poco avendo messo le regioni a statuto speciale e le province di Trento e Bolzano parzialmente al riparo dagli effetti del decreto, sia facendo votare il presidente della commissione Garavaglia, scelta molto irrituale, sia infine conquistando l’appoggio prezioso di Iv.

Senza quel sofferto ribaltamento di forze Fi avrebbe votato contro l’emendamento, come dichiarato a ripetizione in pubblico e in privato, anche a costo di spaccare la maggioranza su un tema che non era affatto solo “di principio” ma rischiava di costare alle casse già esangui dello Stato una cifra mostruosa, intorno ai 30 miliardi all’anno.

La Lega, nonostante le rumorose operazioni di disturbo di Salvini, non si era mai neppure avvicinata a un simile livello di scontro, tanto estremo da aver spinto il ministro Giorgetti a minacciare, peraltro invano, le dimissioni.

Nell’alleanza di centrodestra Tajani già era consapevole di occupare una postazione nevralgica e centrale: la rappresentanza di quelle fasce moderate che per questioni politiche e culturali sfuggono alla presa non solo della Lega ma anche di FdI, considerati entrambi troppo radicali, sovranisti e, soprattutto il secondo, inquinato da un background postfascista.

Con la battaglia sulla retroattività del dl Bonus, particolarmente contrastata dalle banche, Tajani candida il suo partito a rappresentare anche socialmente le fasce medio-alte e schiettamente alte dell’elettorato di destra.

Quante possibilità il nuovo capo azzurro abbia di vincere la sfida lo si capirà solo il 9 giugno e anche la velocità di marcia della separazione delle carriere dipenderà molto da quel risultato. Di certo però, se il vicepremier riuscirà a imporre il protagonismo del suo partito l’intera fisionomia della maggioranza e della destra ne uscirà sensibilmente modificata.

16 Maggio 2024

Condividi l'articolo