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La Georgia può diventare la nuova Ucraina: non lasciamo quei giovani nelle grinfie di Putin

La Georgia può diventare la nuova Ucraina: non lasciamo quei giovani nelle grinfie di Putin

Quello che sta avvenendo in Georgia conferma la bontà di una notazione di Machiavelli secondo il quale, nelle questioni politiche, “tutto netto, tutto senza sospetto non si truova mai”.

I fenomeni spesso non si presentano in una forma univoca, pertanto calibrare su di essi giudizi privi di sfumature non pare agevole. Lo stesso scenario ambiguo, che ha lacerato nel recente passato l’Ucraina, si ripete adesso a Tbilisi in una battaglia che rende arduo distinguere tra i rischi e le opportunità.

Una cittadinanza giovanile, che parla inglese e guarda con speranza all’Europa, invoca in massa il sogno delle libertà e dei consumi. Una seconda fetta di società, ancorata ai simboli più tradizionali del paese, non intende invece tagliare il cordone ombelicale con la vecchia Russia.

Contro la parte che è maggioranza nel parlamento, e sventola il principio che autorizza il governo ad avanzare proposte di legge contestate come quella sugli “agenti stranieri”, insorge la folla oceanica che rigetta la misura ribattezzata “legge russa” evocando il bisogno di occidente.

In sistemi democratici più consolidati, lo scenario di una forte divaricazione tra piazza e palazzo rientra nella fenomenologia della vita politica abituata a neutralizzare i conflitti. Entro regimi fragili, e privi di solide ancore istituzionali, la polarizzazione potere-strada rischia invece di preludere a fratture con i classici appelli al cielo. La storia della Georgia post-sovietica, non a caso, è scandita da guerre, occupazioni, stati di emergenza.

La scommessa a favore della crisi dell’ordinamento vigente comporta dei rischi riconducibili al controllo sfuggente della transizione. Mentre appurato è il vuoto di governo che segue ad ogni destrutturazione del potere, del tutto incerta rimane l’attitudine della componente modernizzatrice a prevalere nello scontro con una effettiva opera di stabilizzazione.

Lo schema che l’Europa e gli Stati Uniti hanno sinora adottato nella direzione dello sgretolamento dell’ex impero sovietico non è esente da azzardi strategici, anche per via di una solo parziale valutazione delle ricadute di talune opzioni (l’allargamento della Nato, in primo luogo).

Si è rivelato gracile anzitutto il calcolo secondo cui, mettendo la Russia dinanzi al fatto compiuto (trasferimento della sua antica periferia sotto le insegne politico-militari occidentali), nulla di preoccupante sarebbe stato escogitato dall’orso moscovita come risposta ad una marginalizzazione così eclatante.

Nella convivenza con l’arcipelago post-sovietico, in scarsa considerazione è stata tenuta la reazione delle élite ricomparse attorno ai resti del Kgb davanti alle deposizioni cruente di presidenti sgraditi all’occidente e all’arruolamento di una porzione dell’Armata Rossa nelle divisioni dell’Alleanza Atlantica.

L’Ucraina è un campo minato non soltanto perché sul suo suolo ospita etnie russe, ma in quanto il paese è stato parte integrante delle dinamiche ideologiche, militari, politiche del ‘900 sovietico. Ha fornito all’“impero del Male” capi politici come Nikita Krusciov, l’uomo di confine vissuto nel Donbass che vestiva all’ucraina, o Leonid Breznev, segretario generale nel tempo della lunga stagnazione che mai abbandonò la parlata delle steppe. La storia di una nazione fresca di indipendenza appare molto più intrecciata con le vicende del Cremlino che con quelle di Berlino o di New York.

Nel corso di una “guerra metafisica per la libertà” (Corriere della sera) contro l’autocrazia moscovita sempre affamata di terra, sono riecheggiati i motivi della teologia politica medievale. È comprensibile che il leader di un paese stremato, e in difficoltà anche per la fuga di migliaia di giovani arruolabili, attingendo dalle stesse simbologie del patriarca di Mosca, parli nel cortile di una cattedrale di Kiev invocando l’Altissimo (“Dio indossa mostrine dell’esercito ucraino. Con un alleato del genere, la vita vincerà sempre sulla morte”).

Meno ragionevole è che l’Eliseo risponda alla chiamata mistica accarezzando la suggestione terrestre del rumore degli anfibi che da Parigi avanzano a passo cadenzato nel fronte orientale. Dinanzi alle continue immagini delle distruzioni, che smentiscono il racconto di una riconquista imminente grazie a epiche controffensive o alla resistenza con il fuoco delle molotov fabbricate nei giardini di casa, le opinioni pubbliche non si scaldano per governi che non esitano a percuotere i tamburi di guerra. Segnali di processi già visti a Maidan si scorgono anche in Georgia, dove alle invocazioni di libertà si replica con mosse che celano i detriti della volontà di potenza.

Lo spartito più vetusto torna nella concessione dello status di “paese candidato alla Ue” alla terra che fu di Stalin, la quale neppure confina con una qualche nazione europea, estendendosi oltre la Turchia e quindi a migliaia di chilometri di distanza da Roma e ad un passo dall’Iran. Il contenimento del revanscismo russo dilata la missione militare del vecchio continente che però, perdendo l’Inghilterra e allargandosi ad Est, diluisce i suoi più solidi richiami politico-culturali.

Nel disordine di un mondo post-americano senza più alcun sistema di governance, dove un autocrate muove “operazioni speciali” criminogene, stringe patti con gli ayatollah, invia truppe mercenarie in Africa, e affiorano tanti sintomi regionali di concentrazione di potenza, la piccola Europa accetta la conversione bellica della sua antica funzione politica e civile.

Le grandi culture politiche continentali (socialista, popolare, liberale) non sanno cosa fare in uno spazio divenuto in punto di fatto un universo multipolare che aumenta le incertezze, i pericoli, le sfide.

Al comandante in capo che privilegia la competizione muscolare, non esclusa la carta della guerra per procura, il “macellaio” ribatte giocando con le armi nucleari tattiche ai confini dell’Ucraina. L’Europa giace inerte e, restando passiva di fronte alle palesi prove di escalation, archivia ogni iniziativa politico-diplomatica per gestire le emergenze.

Allargamento infinito (per raggiungere la Georgia via terra si può passare solo attraverso la Russia o la Turchia) e spese crescenti in armamenti non danno sicurezza. Non ci sono reali alternative alla paziente e negoziata costruzione politica della coesistenza tra volontà di potenza rivali che abitano in un nuovo ordine.