Tutte le accuse all'ex Ros
Perché Mario Mori è indagato: le calunnie della procura di Firenze contro l’ex comandante del Ros
Assolto in via definitiva dall’accusa di aver trattato coi mafiosi per far cessare le stragi, ora, a 85 anni, l’ex comandante del Ros è indagato perché non le avrebbe impedite: la teoria surreale della procura fiorentina che poggia su testimonianze vecchie di dieci anni e di fatto smentite dai processi
Giustizia - di Paolo Comi
“Sono un imputato in servizio permanente effettivo”, dichiarò una volta il generale Mario Mori. Tenendo fede a questa affermazione, il neo procuratore di Firenze Filippo Spezia, voluto al Csm dai laici di destra, gli aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli, insieme al pm Lorenzo Gestri, hanno iscritto nel registro degli indagati l’ex comandante del Ros e direttore del Sisde.
Prima accusato, e prosciolto in via definitiva, di aver trattato con i mafiosi per far cessare le stragi, il generale è ora accusato dell’esatto contrario, e cioè di averle favorite.
La tesi, a dir poco surreale della Procura fiorentina, si fonda, come si legge nell’avviso di garanzia notificato a Mori la scorsa settimana nel giorno del suo 85esimo compleanno, su una testimonianza vecchia di dieci anni dell’allora maresciallo dei carabinieri Roberto Tempesta.
Il sottufficiale, effettivo al Nucleo tutela patrimonio artistico di Firenze, agli inizi del 1992, tramite l’antiquario Agostino Vallorani, era entrato in contatto con il terrorista nero Paolo Bellini, che poi sarà condannato all’ergastolo per la strage della stazione di Bologna, per cercare di recuperare delle opere d’arte rubate qualche mese prima dalla Pinacoteca di Modena.
La circostanza, fino a quel momento sconosciuta, divenne pubblica nel 2014 durante il processo Trattativa Stato-mafia. Incalzato dalle domande dei pm Nino Di Matteo, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene, Tempesta disse che Bellini “invece di parlarmi dei dipinti di Modena mi consegnò alcune fotografie di diciassette dipinti rubati a Palermo nel 1985. Mi disse che era riuscito ad infiltrarsi nelle organizzazioni mafiose, sconvolto dalle morti di Falcone e Borsellino, e che voleva fare qualcosa”.
Bellini consegnò a quel punto un biglietto a Tempesta con cinque nomi di boss mafiosi, tra i quali Pippò Calò, Luciano Liggio e Bernardo Brusca, dicendogli che loro avrebbero permesso il recupero dei quadri in cambio degli “arresti domiciliari, della libertà provvisoria o della libertà condizionata, anche solo di mezz’ora”.
Il terrorista aggiunse di voler far ciò per “acquisire fiducia” e in quel modo “conoscere i futuri obiettivi da colpire in modo da prevenire in tempo utile qualsiasi cosa”.
“Bellini – proseguì Tempesta – voleva che fossi io a seguire la sua infiltrazione in quanto si fidava di me ma io gli dissi che non avevo le capacità organizzative e conoscitive per seguire la vicenda”, aggiungendo che “la strada non era facilmente percorribile”.
“Se tu dici che si preparano attentati ai monumenti non saresti legittimato a seguire la situazione?”, replicò immediatamente Bellini, sottolineando l’effetto destabilizzante se si fosse sparsa la voce che la mafia voleva abbattere la Torre di Pisa.
Tempesta spiegò a Bellini che l’unica cosa che avrebbe potuto fare era riferire tutto all’allora colonnello Mori, in quel momento numero due del Ros. Cosa che effettivamente fece recandosi a Roma presso la sede del Ros il 25 agosto di quell’anno.
Dopo aver raccontato quanto accaduto a Mori, Tempesta chiese che su Bellini “fosse fatta una valutazione accurata”, sottolineando che “qualora fosse stato valutato positivamente” era disponibile ad essere uno “specchietto per le allodole”.
Mori, sempre secondo il racconto del sottufficiale in aula, avrebbe replicato che alla prima favorevole occasione era pronto ad inviare qualcuno per parlare direttamente con Bellini. “Mi fece il nome di Ultimo”, sottolineò Tempesta.
“Raccontai al colonnello anche di quello che Bellini mi disse sui monumenti, sulla Torre di Pisa. Io non capivo dove volesse andare a parare. Mori mi fece capire che forse lui aveva intuito qualcosa ma io non chiesi più nulla”, aggiunse inoltre Tempesta.
Dell’incontro con Bellini, Tempesta ne avrebbe poi parlato anche con il colonnello Roberto Conforti, in quel periodo comandante del Comando tutela patrimonio artistico. Ma né quest’ultimo né Mori gli avrebbero ordinato di scrivere una relazione di servizio sui colloqui avuti con Bellini.
Che la “trattativa” Mafia-carabinieri del Comando tutela patrimonio artistico non fosse andata in porto lo racconterà più avanti lo stesso Bellini chiamato a testimoniare al processo contro Matteo Messina Denaro.
“Antonino Gioè (mafioso di Altofonte e fra gli esecutori dell’uccisione di Giovanni Falcone, ndr) mi disse che Cosa nostra ne aveva una con i piani alti del Governo”, dirà ai magistrati Bellini che aveva conosciuto il boss siciliano durante una precedente carcerazione.
Il terrorista affermò anche che Gioè gli avrebbe confidato di pensare a un attacco allo Stato colpendo i beni culturali, ad iniziare dalla Torre di Pisa.
Secondo il pentito Giovanni Brusca, invece, fu proprio Bellini a far balenare a Gioè l’idea degli attentati al patrimonio artistico: “Se ammazzi un magistrato ne arriva un altro. Se butti giù la Torre di Pisa distruggi l’economia di una città e lo Stato deve intervenire”.
A poche ore dagli attentati di via Palestro a Milano e di San Giovanni e San Giorgio al Velabro, Gioé, indicato fra gli ‘accusatori’ di Mori, sarà trovato senza vita in carcere impiccato a una corda. Dopo un decennio quella testimonianza, di fatto smentita dai processi, è ora alla base della nuova incolpazione per Mori. Una beffa.