Storia di un sopravvissuto
Il viaggio dentro un continente, tra prigioni e morte: “Sentiva la sorella gridare ma non poteva difenderla, era un bambino”
Storia di un viaggio durato 10 anni. Protagonista un ragazzino africano che oggi ha 17 anni ed è sbarcato a Marina di Carrara salvato dalla Humanity1, dopo avere attraversato un continente, la morte, la prigione, la Libia
Cronaca - di Angela Nocioni
Dalla nostra inviata a bordo di Humanity1
Fino a dieci giorni fa non sapeva cos’è il mare. Non l’aveva mai visto. Non sa cos’è l’Europa, non voleva nemmeno partire. È sceso a terra nel porto di Marina di Carrara, lunedì mattina, senza sapere cosa aspettarsi. Ciò gli permette forse di aspettarsi qualcosa dal futuro.
È solo e ha meno 17 anni. Non ha nessuno in Africa, non ha nessuno in Europa. Non conosce nessuno sulla faccia della terra. Ha una tristezza nitida e vuole parlare.
La persona più vicina che ha è un ragazzino conosciuto nello stanzone in cui li hanno tenuti chiusi quattro giorni prima di caricarli in 42 su un gommone sgonfio rimasto dopo poche ore alla deriva. Il ragazzino parla inglese e conosce la sua lingua.
Ci chiudiamo nella clinica di bordo: c’è lui con un asciugamano avvolto in testa che ogni tanto lascia scendere a coprirgli le lacrime, il suo amico con un tè caldo che nessuno berrà e Sofia che raccoglie testimonianze per Sos Humanity. I due ragazzi si siedono su una barella rigida al centro della stanza bianca, noi davanti a loro.
Lui parla sempre a voce bassa, guarda solo gli occhi del suo amico o le ciabatte ai suoi piedi. Solo alla fine, quando apriremo la porta di ferro per uscire sul ponte, alzerà gli occhi portandosi le mani sul cuore senza sorridere.
Viene dall’Africa occidentale. Morti i genitori, sono rimasti lui, la sorella e l’ultima nata di pochi mesi. Da soli. “Witches”. Colpiti da una stregoneria, considerati tali perché orfani, perseguitati. L’unica via d’uscita è scappare. Scappano.
Lui non sa quanti anni avesse, forse 6, forse meno, dice che nel cammino un ragazzo grande si innamora di sua sorella, si chiama Babà e parla bambarà, è del Mali, le chiede di accompagnarlo in Libia, di andare lì insieme a vivere.
Lei accetta, a condizione che vengano anche i fratelli. Babà dice di sì. Di quel lungo viaggio a piedi lui ricorda solo che la sorellina piccola nel deserto è morta, che l’avevano in braccio, che non avevano niente da darle e che “la bambina era diventata fredda”.
Lasciarla, “bisognava lasciarla e continuare a camminare”. La porta è chiusa, fa caldo. La sua voce fa continue retromarce, moltiplica le pause, come se non volesse arrivare alla fine, come se avesse paura di arrivarci.
Anche noi abbiamo paura di sentirlo arrivare alla frase che uccide, ce ne saranno almeno dieci in un’ora di racconto, una discesa lenta in un dolore senza fine.
Vengono presi e portati in un campo di ribelli in Algeria. Portano via la sorella, dall’altra parte del campo. Lui la sente strillare, la sente gridare aiuto. Babà e lui sono prigionieri.
“He said he was a child, so young, too young”, ad ogni frase il suo amico che traduce premette sempre queste parole: “lui dice che era troppo piccolo”. Lui la sentiva strillare, la voleva aiutare, “non poteva difenderla perché lui era così piccolo”.
Abbassa la testa, non vuole bere, non vuole uscire, non vuole fermarsi, vuole dire cos’è successo dopo. Racconta che la rilasciano, che lei gli corre incontro, lui la vede e corre da lei “e quando l’abbraccia è pieno di sangue, non sa se è di lui o della sorella, lei è piena di sangue, lui e lei sono pieni del loro sangue, he was so young”.
Li lasciano andare. Tutti e tre, lui, sua sorella e Babà. Lei muore. “Dice che non ci credeva che era morta, diceva che pensava che dormiva, ma gli occhi erano aperti”.
Lui e Babà arrivano insieme in Libia. Babà sa dipingere. Lavorano insieme come imbianchini. Dice che Babà lo portava con sé, lui gli stava accanto e gli apriva e chiudeva i barattoli della vernice.
Quanti anni avevi quando sei arrivato in Libia? Lui non lo sa, forse 9, forse meno. “He grew up in Lybia”. È cresciuto lì. Con Babà che gli dava soldi da mettere da parte per sé. Lui sapeva dove Babà nascondeva i suoi. Un giorno l’amico non torna. Lui aspetta, una notte, due notti.
Chiede aiuto ad altri neri. Babà è stato preso e è in carcere. Gli dicono quale. Chiede che qualcuno lo accompagni lì. Gli mostrano i fucili. Poi uno gli dice di portare soldi, che se li porta liberano il suo amico. Lui va a prenderli. Babà non tornerà mai. Gli dicono che è morto.
Lui non sa dove andare. Rimane dov’è. Passano mesi, continua a imbiancare pareti. I soldi che guadagna li fa custodire a un negoziante sotto casa.
Noi non sappiamo più come star sedute davanti a lui che parla con una voce sempre più bassa, ma senza pause. Le parole escono con impeto, come se gli bruciassero dentro.
“Il negoziante muore e il fratello di lui gli ruba tutti i risparmi. Quando glieli chiede indietro mostra una pistola e dice: sei nero se me li richiedi ti ammazzo, vattene”.
Un libico che viveva lì accanto gli fa una proposta: vieni da me e mi finisci questo lavoro, se lo fai bene ti faccio un regalo. Lui non aveva dove andare, va e gli imbianca tutte le pareti.
Il libico una sera gli dice: domani parti per l’Europa. Lo porta di notte vicino a una spiaggia, lo lascia dentro lo stanzone e se ne va. Quando li fanno uscire per imbarcarli sul gommone lui torna indietro, in fondo alla fila, ha paura del mare, non l’ha mai vista tanta acqua, non vuole andare. “S’è seduto in mezzo, ha sempre stato a testa bassa per non guardare”.
Quando in mezzo alle onde ha visto tutti piangere e gridare perché il motore era rotto dice che era sicuro di morire. “Poi quando è comparso un gommone e tutti dicevano ‘aiuto’, ‘la guardia libica’, lui ha sollevato gli occhi, ha visto quello grande con la grande barba e ha pensato che era Babà che non era morto e era venuto a prenderlo”.
Forse era Rocco Aiello, il capomissione della Humanity1, in piedi sul gommone di salvataggio. È l’ultima sera prima dell’arrivo. Tutti stanno bevendo tè caldo, i ragazzini ballano. Lui no. È seduto su una panca, spalle al mare. Guarda serio, fa un cenno di saluto senza sorridere.
È a ragazzi come lui che noi, che siamo l’Italia – quando non li rinchiudiamo in galera, quando non li accatastiamo come sacchi vuoti nei centri per il rimpatrio – chiediamo di comportarsi nelle nostre città come ospiti discreti molto ben educati, di stanziarsi possibilmente lontano dalle nostre case, di parlare negli autobus solo a bassa voce. Per non disturbarci.