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Giustizia, è riforma flop: il governo al Colle con la coda tra le gambe per non irritare i pm

Giustizia, è riforma flop: il governo al Colle con la coda tra le gambe per non irritare i pm

È una riforma della giustizia a metà quella che il guardasigilli Nordio e il sottosegretario alla presidenza del consiglio Mantovano hanno portato ieri, nuova di zecca, al capo dello Stato.

La voce più spinosa, quella che avrebbe provocato una mezza insurrezione e sulla quale lo stesso Quirinale forse non avrebbe taciuto, era stata cassata già da un po’: a interventi sull’obbligatorietà dell’azione penale non si fa cenno.

Ma anche il piatto forte, la separazione delle carriere, è quanto meno stemperato. Il Csm resterà uno solo, però diviso in una sezione per la magistratura giudicante e una per quella inquirente. Che si possa parlare a pieno titolo di separazione è discutibile.

La nomina dei togati nel Csm dovrebbe passare per il sorteggio secco e non temperato, definizione quest’ultima che indica prima il sorteggio e poi l’elezione nel gruppo dei papabili sorteggiati. È forse la voce che più irriterà i togati perché sembrava certa almeno la mediazione del temperato.

Nel complesso, comunque, si tratta di una riforma soft, che quasi certamente non arriverà sul tavolo del cdm oggi ma il 3 giugno, anche solo per una forma di cortesia istituzionale: lasciare agli uffici del Colle il tempo per esaminare la proposta di riforma costituzionale. Giorgia Meloni, si sa, avrebbe preso volentieri anche più tempo.

La sensazione, suffragata dalle sue stesse parole, era anzi che mirasse ad aprire lo spinoso dossier solo dopo aver messo in cascina il premierato, cioè fuori dal tempo utile per approvare la riforma della giustizia entro questa legislatura.

Ma col passare del tempo si è dimostrato che Fi, il partito che ha per bandiera questa riforma, non è in coma come si riteneva a inizio legislatura.

Tajani ha insistito per non fare la figura del parente povero mentre i soci portavano a casa il premierato (referendum permettendo) e l’autonomia differenziata.

Oltre a essere il leader di un partito che non pare affatto cadaverizzato come da malauguranti previsioni, Tajani giocherà un ruolo importante nella partita europea dopo le elezioni, che per Meloni è cruciale. Insomma, non gli si poteva dire di no.

In compenso la premier e soprattutto l’eminenza grigia Mantovano, a cui competono i delicati rapporti col Colle, hanno fatto il possibile per abbassare le possibili tensioni.

La decisione di presentare in anteprima il testo al presidente, formalmente spiegato anche con il ruolo di presidente del Csm di Mattarella, non è solo un gesto di cortesia istituzionale ma una specie di omaggio che mira a evitare contrapposizioni.

Al capo dello Stato, anche se mai lo ammetterebbe, questa riforma non piace come in tutta evidenza non apprezza né poco né punto l’elezione diretta del premier. Non significa che prenderà posizione di sorta.

Ha già chiarito un paio di mesi fa che il suo ruolo non contempla giudizi sul merito dei provvedimenti ma solo sulla loro correttezza formale. Dunque non si farà tirare per la giacchetta da chi lo vorrebbe schierato contro la riforma ma neppure permetterà che si faccia passare il suo non intervento per una condivisione della riforma.

Un’eventualità tutt’altro che irrealistica. Costa, Azione, che ha una sua proposta di riforma costituzionale sulla separazione delle carriere giacente alla Camera, definisce “una sorprendente sgrammaticatura istituzionale” l’aver fatto trapelare la notizia dell’incontro sul Colle e diffida i governanti dal “tirare per la giacca il capo dello Stato nelle loro sbracate strumentalizzazioni elettorali”.

Ciò non significa che Mattarella debba restare afono. La riforma dovrà essere vagliata dal Csm e il presidente ha tutti gli strumenti per intervenire indirettamente.

È probabile che qualcosa abbia detto, a porte chiusissime, anche ieri nel colloquio con Nordio. In questo caso l’argomento sarebbe quasi certamente quel sorteggio secco che ai togati proprio non va giù.

Ma pubblicamente il presidente si comporterà come sta facendo con il premierato: senza prendere posizione ma esaltando in ogni occasione il ruolo della Costituzione e dello Stato nato dalla Resistenza (e dalla Costituente).

Forse lo ha fatto anche ieri, nel commemorare a quarant’anni dall’attentato, le 8 vittime della strage di piazza della Loggia, a Brescia. È stato un discorso più intenso del solito, nel quale la denuncia delle trame neofasciste contro lo Stato democratico è stata sottolineata più volte.

Il presidente ha consapevolmente preso le distanze da tutte le interpretazioni che vogliono la strategia della tensione orchestrata dallo Stato. Ci sono stati, è vero, funzionari infedeli.

Ma lo Stato democratico frutto della Resistenza era l’obiettivo, ha contato le proprie vittime ed è stato il muro che ha impedito a quelle trame di vincere.

Mattarella, capovolgendo quello che è da decenni quasi un luogo comune, lo dice apertamente: “Si chiamavano stragi di Stato perché avevano l’obiettivo di colpire lo Stato”.

È di certo una difesa appassionata della prima Repubblica, quella democristiana. Forse è anche un monito rivolto a chi, gli elettori, dovrà decidere se mantenere questa forma dello Stato o se cambiarla radicalmente.