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Il Pci poteva cambiare nome, ci pensò Togliatti prima di Berlinguer

Il Pci poteva cambiare nome, ci pensò Togliatti prima di Berlinguer

Se il simbolico ha un peso… Fosse anche un semplice simbolo, il contrassegno ordinario elettorale del Pci, ciò che Albe Steiner, grafico del Politecnico di Elio Vittorini e del logo de la Rinascente, riteneva comunque sovrabbondante: una falce, un martello, una stella, due bandiere, due aste, tre lettere separate dai punti “è troppa roba”.

Sfoglio il libro di Marcello Sorgi, appena pubblicato da Chiarelettere, San Berlinguer, e mi soffermo sull’eventualità che il Partito comunista italiano potesse cambiare nome assai prima della “svolta” – il 1991 – così da riconoscersi nelle semplici ragioni del socialismo democratico, presenti “in nuce” anche nell’elaborazione del Migliore.

Subito mi ritrovo sollecitato dai ricordi personali, cose che precedono storicamente le scelte di Achille Occhetto e di molti altri dirigenti post-berlingueriani. Racconti che qui riporto come dato di testimonianza.

Sarà stato, forse, il 2016. In attesa di fare ritorno a Roma mi ritrovo al bar dell’aeroporto di Punta Raisi, a Palermo, insieme a Simona Mafai, dirigente comunista siciliana, sorella di Miriam, lei che tuttavia non aderirà al Pds.

Mi racconta di lei ragazza, giovane militante comunista, confessa una conversazione intima con Togliatti, sarà stato il 1962. “Togliatti – mi dice – sarebbe stato d’accordo anche a cambiare nome al partito, parlando con noi giovani, alle Frattocchie, pronuncia, con sincerità disarmata, testualmente: ‘Fatelo voi, noi, non possiamo”.

Il peso della propria storia, politica, anche personale: la scissione di Livorno, il Komintern, lui, “Alfredo”, emissario proprio dell’Internazionale comunista, in Spagna durante la guerra civile.

È stata l’ultima volta che ho incontrato Simona, insieme abbiamo vissuto la militanza in Sicilia. La rivedo ancora adesso, è il 1970, durante una commemorazione dei compagni morti durante i moti dell’8 luglio 1960, alla sezione di piazza Montegrappa, che prenderà poi il nome da uno dei suoi martiri, Francesco Vella, edile e dirigente del Pci.

La sua tomba, ma questo è un dettaglio secondario, si trova a poca distanza dalla sepoltura dei miei, al Cimitero di Sant’Orsola: ho sempre un fiore anche per lui.

Il peso specifico della memoria, del simbolico, ancora. Un altro ricordo, che più volte ho restituito, inquadra invece Renato Guttuso, nel 1981, e gli affanni della “Giraffa”, così proprio Togliatti chiamava il “suo” partito, creatura in grado di resistere alle ere; politiche, in questo caso.

Interpellato confidenzialmente da una baronessa palermitana proprio su Berlinguer, il pittore ufficiale di Botteghe Oscure, dopo una pausa trattenuta, disse: “Francesca, è uno che lavora tanto, tanto”.

Il peso di una storia ormai si trova alle spalle, da affidare agli storici, gli interrogativi umani tuttavia restano: sarebbe stato possibile prendere le distanze, ancor prima della caduta del Muro di Berlino, dall’ingombro, chiamiamolo così, di Mosca e dell’improbabile marxismo-leninismo?

Simona Mafai, in attesa del nostro volo, si rammaricava che Togliatti fosse morto ad Artek, in Unione Sovietica, nell’agosto del 1964, dopo aver visitato un campo di pionieri. Diceva con sicurezza dolente che, se fosse stato ancora vivo, certamente, anche da lui, il partito “nuovo” avrebbe ricevuto una parola, se non di adesione, di assenso muto.

L’inamovibile peso del simbolico, sempre: il ricordo del “Memoriale di Yalta”, l’ambiguità di un partito che, pur custodendo emozionalmente l’idea della rivoluzione – “veniamo da lontano e andiamo lontano”- altrettanto affermava nel suo statuto la necessità di una “via nazionale al socialismo”, perfino il paradosso, anni dopo, di Berlinguer già segretario generale dell’eurocomunismo con il francese Georges Marchais e lo spagnolo Santiago Carrillo, vecchi volti del tardo stalinismo, ancora il tesoretto intellettuale di Gramsci, che i comunisti di Francia non avevano mai posseduto, essendo il loro un partito essenzialmente “operaio” che si identificava con il volto di Maurice Thorez, “figlio del popolo” come il titolo della sua biografia, a marcare il dato instancabilmente “di classe”.

Il peso, da nuovamente aggiungere, del documentario di Nanni Moretti, La cosa, dove si riversavano emozionalmente per intero i drammi della discontinuità, il pensiero di ciò che sarebbe stato “il mattino del giorno” dopo il congresso terminale.

Come racconta Pier Paolo Pasolini in Uccellacci e uccellini, film sulla crisi dell’ideologia, magari soltanto del “marxismo degli anni Cinquanta”, incarnato da un corvo parlante con la voce del poeta Francesco Leonetti, che custodisce perfino, castone prezioso dell’epopea delle attese degli umili, immagini dei funerali solenni di Togliatti: “il viaggio è finito, il cammino incomincia adesso”.

Simona Mafai se n’è andata nel giugno 2019, altrimenti questa mattina le avrei scritto con la chat di Facebook: “Com’era esattamente quel discorso che quel giorno vi fece Togliatti, quali le sue parole esatte?”