La commemorazione 100anni dopo
Giacomo Matteotti, il riformista rivoluzionario che aveva una idea-religione: la libertà
Probabilmente il proposito di uccidere Matteotti cominciò a maturare dall’inizio del 1924, quando pubblicò l’opuscolo Un anno di dominazione fascista, dove documentava le condizioni dell’Italia dopo dodici mesi di governo mussoliniano
Editoriali - di Redazione Web
Pubblichiamo ampi stralci del discorso tenuto ieri mattina alla Camera dallo storico Emilio Gentile.
A cento anni dall’assassinio di Giacomo Matteotti, si conoscono esecutori, mandanti, moventi. C’è chi dubita ancora che sia stato Mussolini a volere la morte del deputato socialista.
Ma non vi è dubbio che lo stesso Mussolini, in questa aula, il 3 gennaio 1925, si dichiarò orgogliosamente reo confesso per tutti i crimini e i delitti compiuti dal fascismo.
Tuttavia, rimane una questione aperta, la più cruciale dal punto di vista storico, per comprendere il contesto in cui avvenne il delitto Matteotti e le origini del regime totalitario.
Va però precisato subito, a beneficio di chi ancora lo ignora, che i termini totalitario e totalitarismo furono inventati dagli antifascisti nei primi tre anni dopo la marcia su Roma, proprio per definire la novità di un partito armato, che aveva conquistato il potere in uno Stato parlamentare, pur avendo solo una trentina di deputati ma affiancati da oltre trecentomila militanti, che da due anni spadroneggiavano e tiranneggiavano in gran parte della penisola, perseguitando, bastonando e talvolta uccidendo gli oppositori.
La questione tuttora aperta può essere condensata in una domanda: fu il delitto Matteotti, con le sue conseguenze, a spingere il fascismo sulla via del totalitarismo oppure il delitto fu una conseguenza dello Stato asservito al partito fascista, come lo definì Matteotti all’inizio del 1924?
Negli ultimi sessanta anni, storici autorevoli di vario orientamento ideologico, ma non indulgenti verso il fascismo, hanno sostenuto che, giunto al potere, Mussolini mosse i primi passi nel segno dell’incertezza, e solo dopo la crisi provocata dal delitto Matteotti, decise la dittatura a viso aperto, mentre all’inizio non voleva mettere in discussione l’assetto costituzionale del sistema parlamentare, perché il fascismo non aveva un piano preciso dei fini che doveva successivamente conseguire.
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Eppure, fin dal 25 agosto 1922, la rivista mussoliniana «Gerarchia» aveva affermato in modo chiaro e netto, che lo scopo del fascismo era la distruzione dello Stato liberale.
E il 4 ottobre Mussolini disse in pubblico che lo “Stato liberale era stolto perché dava la libertà a tutti: noi non daremo questa libertà. Dividiamo gli italiani in tre categorie: gli italiani “indifferenti”, che rimarranno nelle loro case ad attendere; i “simpatizzanti”, che potranno circolare; e finalmente gli italiani “nemici”, e questi non circoleranno”.
Dopo la conquista del potere, il fascismo fu coerente nell’attuare subito i propositi enunciati. Alla fine di dicembre, Mussolini creò il Gran Consiglio, organo supremo del partito fascista da lui presieduto, e fece legalizzare lo squadrismo istituendo la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, mantenuta a spese dello Stato, ma sottoposta agli ordini di Mussolini, e non del re. Inoltre, identificandosi con l’Italia, il fascismo trattava i suoi oppositori da nemici interni della nazione, contro i quali ogni violenza era lecita.
I caratteri fondamentali del regime fascista, come era chiamato già allora da fascisti e antifascisti, furono rilevati fin dall’aprile del 1923 dal liberale Giovanni Amendola: “Noi abbiamo visto l’attuazione di un disegno nel quale, accanto ad ogni organo statale viene collocato un organo fascista, che lo domina, lo controlla e lo paralizza: il Gran Consiglio accanto al Consiglio dei Ministri, i Commissari politici accanto ai prefetti, i segretari dei fasci accanto ai vari organi dell’autorità statale; in questo modo, spetta al Ministro, al Prefetto, al Questore, al funzionario in genere, di ubbidire al corrispondente grado della gerarchia fascista”.
Nello stesso tempo, proseguiva Amendola, si stava imponendo una strana e pericolosa mentalità che tende a dividere i cittadini italiani in fascisti e non fascisti, creando nell’intero paese due caste, una inferiore e una privilegiata, quella fascista, che tollerava appena l’esistenza e la materiale circolazione dei non fascisti, a patto ch’essi dimentichino di avere delle idee, dei sentimenti, una loro vita morale, rassegnandosi a contribuire alle spese dello Stato, senza discuterne il governo, perché considerati minorenni civili.
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25 luglio, il duce espose con tracotante chiarezza i fini del fascismo: “Fino a quando lo Stato non sarà diventato integralmente fascista, e fino a quando non sarà tramontata ogni velleità di riscossa da parte degli elementi antinazionali, il fascismo, Partito e Governo, che ha fatto la rivoluzione non può rinunziare alla forza armata delle camicie nere”.
Uno dei principali “elementi antinazionali” destinato ad essere schiacciato dal regime fascista fu Matteotti. Il 3 maggio 1923, il giornale di Mussolini lanciò un avvertimento letale al disonorevole Matteotti, definito un volgare mistificatore, notissimo vigliacco e spregevolissimo ruffiano: “sarà bene che egli si guardi! Che se dovesse capitargli di trovarsi, un giorno o l’altro, con la testa rotta (ma proprio rotta!) … non sarà certo in diritto di dolersi”.
Alla minaccia seguì l’esecuzione: il 2 luglio, il deputato fu aggredito con la moglie a Siena, e costretto a lasciare la città. Già due anni prima, era stato sequestrato e seviziato dagli squadristi, e messo al bando dal suo collegio elettorale nel Polesine.
Probabilmente il proposito di uccidere Matteotti cominciò a maturare dall’inizio del 1924, quando pubblicò l’opuscolo Un anno di dominazione fascista, dove documentava le condizioni dell’Italia dopo dodici mesi di governo mussoliniano: “L’Italia è il solo paese civile dove una milizia di partito è tenuta in armi e pagata a spese dello Stato contro un’altra parte di cittadini; la legge è divenuta una finzione; le libertà personali, di domicilio, di riunione sono alla mercè di qualsiasi capo fascista. Ottanta cittadini italiani sono stati in quest’anno uccisi impunemente dai cittadini che godono il privilegio fascista. Migliaia di cittadini sono stati bastonati, percossi, feriti; centinaia di domicili invasi o devastati, senza che la polizia se ne sia mai accorta”.
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Nonostante le minacce, Matteotti continuò a combattere il fascismo. Nessuno può illudersi, affermò alla vigilia delle elezioni del 1924, che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia il regime di legalità e libertà; tutto ciò che esso ottiene, lo sospinge a nuovi arbitrii, a nuovi soprusi. È la sua essenza, la sua origine, la sua unica forza: ed è il temperamento stesso che lo dirige.[…]
Il nemico è attualmente uno solo: il fascismo. Col fascismo non vi possono essere né trattative né accordi se non rinnega sé stesso, cioè se non ritorna alla libertà – quindi inutile trattare.
Nelle settimane precedenti il suo assassinio, Matteotti intensificò la sua intransigente battaglia contro il fascismo. Ormai isolato nel suo stesso partito, era risoluto a difendere l’ideale democratico col sacrificio della vita.
Da riformista rivoluzionario, come lui stesso si definiva, riteneva inscindibile il socialismo dalla libertà. Perciò si oppose con pari intransigenza al comunismo, considerandolo complice involontario del fascismo.
La violenza e la dittatura predicata dall’uno, diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in atto dell’altro. E ai comunisti disse chiaro e netto il 16 aprile 1924: “Voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza delle minoranze; noi siamo socialisti e per il metodo democratico delle libere maggioranze. Non c’è quindi nulla di comune tra noi e voi”.
Pochissimi antifascisti, come Amendola, Matteotti e Sturzo, capirono fin dall’inizio la novità totalitaria del fascismo, e forse per questo furono fra le sue principali vittime.
Amendola, come abbiamo visto, fu il primo a denunciare il sistema totalitario del fascismo, come lo definì nell’aprile del 1923: e il 26 dicembre per ordine di Mussolini, fu selvaggiamente bastonato; morì in esilio il 7 aprile 1926, anche per conseguenza di una nuova aggressione che l’aveva lasciato in fin di vita.
Dopo l’assassinio di Matteotti, Sturzo accusò Mussolini di voler isolare il fosco delitto contro l’on. Matteotti dal quadro del regime fascista, ma era un tentativo vano perché l’assassinio aveva la sua origine nel regime stesso, aveva i suoi precedenti necessari in tutti i delitti politici commessi dal fascismo. Minacciato di morte, il 25 ottobre 1924 Sturzo lasciò l’Italia.