L'analisi su Haaretz

“Siete ebrei?”, la domanda del soldato israeliano al check-point: il racconto di Gideon Levy su Haaretz

Lo racconta Gideon Levy su Haaretz, è successo al checkpoint di Einav, uno dei 500 che sbrindellano la Cisgiordania. “Non c’è luogo al mondo in cui si chieda a un uomo quali siano le sue origini per sapere come trattarlo, solo qui questa domanda è legittima”

Esteri - di Umberto De Giovannangeli - 2 Giugno 2024

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“Siete ebrei?”, la domanda del soldato israeliano al check-point: il racconto di Gideon Levy su Haaretz

Siete ebrei? Non israeliani. Ebrei. Non importa che mestiere fai, cosa stai cercando. Dalla risposta che dai dipende se passi o no quel check-point. Uno degli oltre 500 che spezzano in tanti coriandoli territoriali la Cisgiordania. A darne conto è Gideon Levy.

Quando il fotografo Alex Levac è voluto scendere dall’auto per un momento, il soldato gli ha chiesto: “Sei ebreo?” – scrive Levy per Haaretz – Non c’è luogo al mondo in cui questa domanda sia legittima. Supera i confini chiari e accettabili della privacy e del razzismo. Non c’è luogo al mondo in cui si chieda a un uomo quali siano le sue origini, la sua nascita o la sua nazionalità, per sapere come trattarlo. Solo qui, al checkpoint di Einav, che assedia Tul Karm, questa domanda era legittima. Solo quando un soldato dell’IDF fa questa domanda sgradevole, sembra a tutti che abbia il diritto di farla, così come ha il diritto di imprigionare, maltrattare, detenere e talvolta sparare senza motivo.
È successo lunedì di qualche settimana fa, al crepuscolo. Poche ore prima quello stesso soldato si era messo sull’attenti in memoria di sei milioni di persone del suo popolo. Nel Giorno della Memoria dell’Olocausto. È difficile sapere cosa sia passato per il suo cervello lavato durante la sirena, forse stava pensando a ciò che gli era stato insegnato a pensare in questi momenti. È difficile supporre che abbia visto un qualche collegamento tra ciò che gli era stato insegnato sull’Olocausto e il suo “servizio significativo” nell’Idf: in piedi a un posto di blocco in Cisgiordania, aprendo e chiudendo, chiudendo e aprendo, arbitrariamente, il più delle volte a seconda della sua decisione o del suo umore.
Le decine di automobilisti “non ebrei” che hanno aspettato per ore in preda alla disperazione non hanno sentito la sirena né hanno pensato all’Olocausto. Volevano solo tornare a casa sani e salvi. E il soldato israeliano ci ha chiesto se eravamo ebrei. Sapeva che eravamo giornalisti, sulla base dei documenti che gli abbiamo mostrato, ma voleva sapere se eravamo ebrei. Forse aveva difficoltà a credere che gli ebrei potessero lasciare Tul Karm tutti interi. Non era quello che gli era stato detto su Tul Karm. Levac rispose: “Vuole controllare?” e tornò in macchina”.

Tornavano da un luogo di dolore e di morte. Racconta Levy: “Stavamo tornando da Tul Karm, dove avevamo indagato sull’uccisione di un ragazzo in sella a uno scooter, che era stato colpito dai soldati da lontano. Dall’inizio della guerra, il checkpoint di Einav è rimasto aperto solo poche ore al giorno. Aperto, chiuso, ora è chiuso. Non c’è quasi nessun’altra via d’uscita da Tul Karm, a parte questo posto di blocco. Al mattino, entrando in città, abbiamo aggirato il posto di blocco, che era stato chiuso anche allora, e abbiamo percorso una tortuosa strada sterrata tra villaggi e uliveti. Ma nel pomeriggio, quando siamo tornati indietro attraverso lo stesso percorso, gli autisti palestinesi che venivano nella direzione opposta ci hanno fatto un gesto: “Mamnua”, vietato. I soldati avevano chiuso il cancello di uscita dal villaggio di Shufa, alla fine del sentiero da cui eravamo entrati la mattina, e non era più possibile lasciare Tul Karm. La routine.
Questa è la realtà della vita in Cisgiordania, di cui nessuno parla: una vita in costante semibuio, senza poter sapere cosa ci riserverà la giornata. Israele ha deciso di aumentare gli abusi con la scusa della guerra. Se una persona può viaggiare su sentieri sterrati e raggiungere lo stesso posto che raggiungerebbe sulla strada principale, non ha nulla a che fare con la sacra “sicurezza”. Ora è solo un abuso per l’abuso, senza maschera e con la scusa della guerra.
Questo abuso non interessa a nessuno in Israele, non viene denunciato e non è preoccupante. Nessuno pensa alle sue ripercussioni, finché i coloni sono contenti. Questo è il compito principale dell’Idf: far felici i coloni. Ora avranno anche un brigadiere generale dei coloni. Ma la vita in Cisgiordania negli ultimi sette mesi è già una vita che nessun ebreo israeliano conosce. Le strade della Cisgiordania sono semideserte. A parte i coloni, quasi nessuno può raggiungerle.
Due soldati e un ufficiale si trovavano al posto di blocco di Einav nel Giorno della Memoria. Un lungo convoglio di camion si trovava sul ciglio della strada, con gli autisti che aspettavano invano, senza speranza. Uno degli aspetti comuni della vita in Cisgiordania è che non si può mai sapere nulla. Quando si aprirà, quando si chiuderà. Il tempo di quegli autisti, come la loro dignità e la loro vita, non significa nulla. L’ufficiale e i due soldati ci hanno detto che il posto di blocco era chiuso. Come faremo a tornare indietro? Non lo sapevano.
Poi ci hanno chiesto se eravamo ebrei”.

2 Giugno 2024

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