Livio Ferrari ha scritto un libro. Si intitola Il carcere in Italia oggi – Una fotografia impietosa edito dalla casa editrice Apogeo. L’autore non è di certo nuovo al tema. Giornalista, scrittore, cantautore, esperto di politiche penitenziarie, è portavoce del Movimento No Prison.
Il suo sguardo è rivolto a chi di pena muore. Livio sa che anche laddove la pena di morte non c’è più, anche laddove la pena fino alla morte è abolita, continua a esistere la morte per pena. E continua a esistere la morte per pena perché esiste il carcere.
Sono già 35 i suicidi avvenuti in carcere quest’anno. Dal libro apprendiamo che sono milleottocento quelli avvenuti da inizio ‘900 mentre quasi tremila esseri umani sono morti in carcere. Poi ci sono gli atti di autolesionismo, spesso ultima disperata istanza per dire “io esisto!”. Con le violenze che vengono perpetrate da chi, in questo luogo mortifero, si abbruttisce nel circolo vizioso senza fine del male che chiama male.
Numeri che parlano. Ma poi servono occhi che vedano. Perché se i muri di cinta dei penitenziari fossero cristalli trasparenti e le pareti di vetro, allora le petizioni popolari, le proposte di legge se non addirittura i decreti legge dettati da ragioni di “necessità e urgenza” di chiudere questi istituti, si sprecherebbero. Perché quello che accade là dentro, nascosto da alti muri di cemento e magari anche da “gelosie” alle finestre, urta contro il senso di umanità. E può durare fintanto che non lo si vede.
Nella guerra che si combatte nei campi di battaglia, i responsabili delle ostilità sono noti. Ma nel conflitto che ogni giorno si consuma nelle carceri dove la trasparenza svanisce insieme alla conoscenza di ciò che accade là dentro, le cose vanno diversamente e sembra che la responsabilità sia solo e sempre di chi in carcere ci è entrato. Vale per me quello che disse il Primo Ministro britannico Clement Attlee nel discorso di apertura della Conferenza istitutiva dell’UNESCO: “Le guerre, dopo tutto, non iniziano nelle menti degli uomini?” Perché è dal nostro modo di pensare che si determina il cambiamento.
Ecco allora che risulta attualissimo quanto affermato già dal “Manifesto No Prison” nel 2012 che dichiarava doveroso un radicale cambio di paradigma, un’uscita dalla concezione patibolare della giustizia che vuole la componente del dolore come riparatrice di un male accaduto. II volume descrive i nodi da sciogliere nello stretto mondo della reclusione: dalle case di lavoro all’ergastolo, dal 41bis alla questione della segregazione in carcere prevalentemente dei “perdenti”, i poveri, gli emarginati.
È una denuncia di come il diritto penale sia divenuto ormai e sempre di più il modo in cui si affrontano (o per meglio dire, non affrontano) questioni sociali. Il diritto penale con la sua appendice carceraria diventa così merce a buon mercato nello scambio tra elettori ed eletti. Uno scambio che per essere proficuo richiede la creazione e la costante alimentazione di un clima di paura che costringe a rifugiarsi in sentimenti primordiali quale la vendetta. Lucida poi è la denuncia di quanto la risposta insita nella pena come privazione della libertà comporti in realtà una de-responsabilizzazione dell’autore del reato. Quando invece quello che conta è l’esercizio della responsabilità. Responsabilità che porta con sé la riparazione del danno arrecato e anche il recupero all’ordine sociale di chi quell’ordine ha infranto.
È un libro quello di Livio Ferrari che nel paragonare il carcere all’ultimo avamposto manicomiale, recupera il pensiero di Basaglia. E che eleva a faro di un pensiero volto al futuro quello di chi, come Gustav Radbruch, quasi un secolo fa, a metà novecento, voleva un “codice penale senza pene”. Un uomo di grande sensibilità e intelligenza che non chiedeva un “miglioramento del diritto penale, ma un suo superamento con qualcosa di meglio del diritto penale” abbandonando gli atteggiamenti sanzionatori di carattere repressivo e vendicativo, per concretizzarli in leggi più umane e ragionevoli.
Conclude il libro un capitolo dedicato alle canzoni. Perché Livio Ferrari è legato alla musica e alle canzoni. Ha composto circa centocinquanta brani e tra questi c’è una canzone ambientata in carcere scritta quando ancora non conosceva direttamente questo luogo. Ma il carcere ritorna anche in diversi altri cantautori. Chi ne canta lo denuncia, lo racconta più intimamente. Come in un processo alchemico, la combinazione di note musicali, può sprigionare forza vitale. E così anche la canzone può contribuire a questo processo di liberazione da questo altro ferrovecchio della storia.