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La storia di Franz Kafka: il grande scrittore scomparso il 3 giugno di un secolo fa

La storia di Franz Kafka: il grande scrittore scomparso il 3 giugno di un secolo fa

L’opera di Kafka, labirintica e trasparente, enigmatica e immensamente popolare (di una situazione si dice “kafkiana” non “joyceana”!), allegorica e fiabesca, disperante e comico-grottesca. si presta alle interpretazioni più disparate. Arriva al cuore di tutti, perché la sua grandezza non è tanto legata a audacia espressiva, a destabilizzazioni della sintassi, etc. quanto all’invenzione di alcune tra le più potenti mitologie della modernità (a proposito di angoscia, colpa, tradimento, solitudine…).
Provo a estrarne due temi che a me sembrano decisivi, e che ci riguardano da vicino. Il desiderio di “normalità” di tutti i suoi personaggi (una normalità sempre mancata) e una diffidenza verso l’agire, verso lo stesso “impegno” (che sempre implica una “violenza sulle cose”).
Vediamo il primo tema. Figura centrale dell’opera kafkiana è il pariah, lo schlemihl, l’escluso e il perseguitato, il sognatore goffo e maldestro eppure tenace (ne parlò Hannah Arendt). Il pariah non coincide propriamente con l’uomo comune, dato che almeno nella formulazione arendtiana si rifiuta di integrarsi, ci tiene insomma ad essere diverso. Charlot rappresenta il paria sfrontato e gioioso. Però la maggior parte dei personaggi di Kafka si avvicinano all’uomo comune. Prendiamo il Castello. L’agrimensore K., privo di una appartenenza precisa, tenta la via dell’assimilazione chiedendo solo ciò che gli spetta di diritto: “sembra pensare che sarebbe già tanto se anche un solo individuo riuscisse a vivere come un normale essere umano”. È in fondo interessato a raggiungere quella cosa cui tutti aspirano, la normalità. Poiché, annota la Arendt, “chi si sente lontano dalle regole semplici e fondamentali dell’umanità, chi sceglie di vivere in uno stato di emarginazione, anche se costrettovi perché vittima di uno stato di emarginazione, non può vivere una vita normale”, e continua: “la vera umanità non può restare nell’eccezione, neppure in quella del perseguitato, ma solo in quella che è o dovrebbe essere la regola”. Un brano da far imparare a memoria agli attuali esteti della trasgressione full time, e da opporre alla retorica del nomadismo e dei felici sconfinamenti: la normalità, perfino quella piccolo-borghese, non è in sé un disvalore ma solo l’eco deformata di qualcosa cui tende naturalmente l’essere umano. Nel Castello è ritratto l’“uomo di buona volontà”, che vorrebbe appartenere a una comunità e non ci riesce. Vorrebbe avere una casa, una famiglia, un lavoro, una cittadinanza, un mondo di relazioni. I protagonisti dei romanzi e racconti di Kafka aspirano tutti – in modo struggente – alla normalità, ma non riescono mai ad afferrarla: tutto finisce inesorabilmente male, la lettera non giunge a destinazione, la porta non si aprirà, il medico non riesce a tornare a casa, lo scapolo Blumfeld non può leggersi tranquillamente il giornale in veste da camera… qualcosa glielo impedisce sempre, sia esso l’ambiente, sia se stessi (i rimorsi, la propria pulsione autodistruttiva), sia un oscuro destino.
La lingua di Kafka, aliena da manierismi e sperimentazioni somiglia alla lingua quotidiana, benché racconti storie surreali e paradossali. Sempre la Arendt:“L’unica cosa che possa allettare e ammaliare il lettore è la verità”. Ma quante verità esistono per lo scrittore praghese? E veniamo al secondo tema, la critica di ogni attivismo.
Nel quarto dei suoi otto Quaderni in ottavo, scritti nella quiete agreste di Zurau (mescolati ai suoi inespugnabili aforismi) dove si rifugia nell’azienda della sorella, dopo la diagnosi di tubercolosi, Kafka così scrive: “Esistono, per me, due specie di verità, quali immagino rappresentate dall’albero delle scienze e dall’albero della vita. La verità di chi agisce e la verità di chi riposa. Nella prima il bene si distingue dal male, la seconda non è altro che il bene stesso, e ignora sia il bene che il male. La prima verità ci è concessa realmente, la seconda possiamo solo intuirla. Questo è l’aspetto triste della cosa. Quello gioioso, invece, è che la prima verità appartiene all’attimo fuggente, la seconda all’eternità, per cui la prima finisce per spegnersi nel fulgore della seconda”. Un brano a tratti sfuggente, indecifrabile, come le altre pagine dei Quaderni. Proviamo a decifrarlo.
Lo scrittore praghese è influenzato dalla tradizione ebraica. Come sottolinea Roberto Fertonani nella introduzione, si intravede un bagliore di speranza, la “tensione verso una palingenesi problematica, non impossibile”, quasi a conferma di una vocazione antitragica della tradizione ebraica, nella quale – essendo Dio giusto e razionale – alla fine prevale comunque la giustizia. Nella tradizione ebraica, al contrario che nella mitologia greca, “l’uomo ha sempre una possibilità di salvarsi”(Elie Wiesel). Si pensi solo alla utopia politica comunitaria della “Società dei lavoratori nullatenenti” formulata da Kafka: “possedere l’essenziale”. E se l’Eden è perduto per sempre, pure di quella felicità totale l’individuo può sperimentare una “striscia assoluta”. Qui si innesta però quella obiezione alla stessa idea di “impegno”, cui accennavo. Per Kafka già lo sforzo, l’azione consapevole e organizzata per raggiungere quella “Società dei nullatenenti” ricadrebbe nel male, in quanto hybris, colpevole forzatura. È come se ci dicesse che qualsiasi agire nasce dal desiderio, peraltro illusorio, di dominare la realtà, di piegarla a sé, dunque contiene una qualche prepotenza. Va inoltre sottolineato che quella utopia riguarda i “nullatenenti”, e prevede anzitutto una riduzione della giornata lavorativa, non una vita operosa e realizzata: alla passività di chi riposa è riservata nientemeno che l’eternità!
I diari di Zurau vanno letti in chiave teologica (si ricordi il legame con Georg Mordechai, ultimo chassid di Praga). Kafka accetta il mondo nella sua indecifrabile complessità, poiché la purezza si manifesta attraverso l’impuro – quando va a trovare lo zaddik di una piccola comunità russa fuggito a Praga nota che “è sporco e pulito” -, il mondo sensibile è male solo per gli occhi dell’uomo macchiato di terrestrità, e tutto è in Dio. La purificazione è liberazione dell’ “indistruttibile” dentro di noi. Ma poi conclude: “vi è una perfetta possibilità di felicità: credere nell’indistruttibile in sé medesimo e non tendere verso di esso”.
Dunque non tanto “tendere” verso qualcosa. Basta solo crederci! Conclusione sorprendente. La fede nell’”indistruttibile” dentro di noi (su quanto non può essere raggiunto neanche dalla Storia) non ha a che fare con la volontà o con il progetto, e anzi si sostanzia di passività. Il mondo è mutevole ma non modificabile. Né si può migliorare. La “verità di chi riposa” è vivere secondo coscienza, senza badare all’esito, assecondando un ritmo segreto del mondo.