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Arriva in Italia con la figlia morta in braccio e la mettono in gabbia

Foto: Pietro Bertora

Foto: Pietro Bertora

L’Italia, il nostro Paese, ha messo a dormire all’hotspot di Lampedusa la mamma e la sorella di Mawa, 5 mesi, trovata morta il 28 maggio a 17 miglia dall’isola in un guscio di alluminio dai volontari della nave della ong tedesca Humanity1.

L’Italia, il nostro Paese, le ha messe lì, insieme ad altre 470 persone, in un hotspot con capienza massima per 378. Ce le ha lasciate 4 giorni prima di trasferirle, di notte, a Porto Empedocle dove sono sbarcate il primo giugno.

Sono arrivate a Lampedusa il 28 mattina in evacuazione medica d’emergenza perché la Humanity1 non ha una cella frigorifera dove poter tenere la bodybag fino a Livorno, porto di sbarco obbligatorio a 900 chilometri di distanza assegnato dall’Mrcc di Roma per 186 naufraghi soccorsi in 48 ore tra lunedì e martedì scorsi.

Il cadavere della bambina ieri era ancora a Lampedusa nell’attesa della disponibilità di un cimitero della provincia di Agrigento ad accoglierlo.

Quel corpicino grande come mezzo filone di pane il cimitero dell’isola non può prenderlo, non c’è spazio dicono dalla Prefettura: “E’ prassi, arrivano 5,6, 7, 8 salme al mese e per dare una mano al Comune cerchiamo un cimitero altrove”.

Fatima, 3 anni, la sorella di Mawa, appena issata a bordo all’alba dal gommone di soccorso era zuppa di carburante, fradicia, occhi sgranati. Non ha mai pianto e non ha mai sorriso.

La sua mamma, una giovanissima ragazza della Guinea che viaggiava da sola con le due figlie, si è vista morire di stenti la più piccola in braccio in un barchino alla deriva da più di due notti, senz’acqua.

E in mezzo al mare ha continuato a chiedere prima in francese, poi in inglese “dov’è mia figlia?” finché i medici e la psicologa volontari nella nave della ong tedesca le hanno detto che Mawa era arrivata a bordo ormai già morta, che era impossibile rianimarla.

Fatima e la sua mamma, 3 e 19 anni – vive soltanto perché Mali, marinaia catalana trentenne a bordo della nave di salvataggio ha avvistato con il binocolo, in zona di soccorso di competenza italiana, il guscio di alluminio in cui stavano con altre 42 persone – l’Italia, che non le ha soccorse ma si è limitata a evacuarle d’urgenza, le ha sistemate per tre giorni in un hotspot affollato.

Possibile che una ragazza a cui è appena morta in braccio sua figlia e una bambina di 3 anni, l’Italia non riesca a farle dormire, appena arrivate a terra, in un qualsiasi posto che non sia una gabbia con altre 470 persone?

Dalla prefettura di Agrigento rispondono che “è grande l’hotspot”. Ammettono che la capienza massima “è di 378 unità”, ma spiegano che sono state viste da psicologi della Croce rossa, che sono state fatte rimanere sull’isola “in attesa di poter fare il trasferimento ad Agrigento insieme al corpo” ma che siccome il posto in cimitero non si trovava alla fine sono state trasferite temporaneamente solo loro due.

Dicono che sono “nel centro La Casa dei Gabbiani, gestita dalla comunità Delfino, dove le ha incontrate sia sabato che domenica personale di Medici senza frontiere specializzato nell’assistenza a sopravvissuti ai naufragi” e che la Prefettura “sta chiedendo al Ministero il trasferimento in un centro del Sistema accoglienza ed integrazione adatto a persone con alta vulnerabilità”.

Sta cercando la disponibilità di un cimitero in provincia di Agrigento perché Fatima e la mamma possano assistere alla sepoltura di Mawa.

Che sul molo di Lampedusa sarebbe arrivata viva, non dentro un pacchetto bianco, se nel mar Mediterraneo ci fosse una missione pubblica di salvataggio.