Un libro importante, di stringente, drammatica attualità. Sugli ebrei. Domande su antisemitismo, sionismo, Israele e democrazia (Bollati Boringhieri, 2024), dal 31 maggio nelle librerie.
L’autore è Gadi Luzzatto Voghera, figura di primissimo piano nell’ebraismo italiano. Direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC). Studioso di Storia contemporanea, specialista in Storia degli ebrei e dell’antisemitismo, è membro della delegazione italiana nell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA).
“Sugli ebrei”: un titolo che forse merita di essere precisato. Da cosa nasce l’esigenza di scrivere questo testo?
Dopo il 7 ottobre e l’esplosione del conflitto in Medio Oriente nulla sarà come prima. Quel giorno è cambiato tutto per Israele, per gli ebrei della diaspora e il modo in cui essi si confrontano con la loro identità, per il linguaggio antisemita. Lo è anche, di certo, per come i non ebrei si relazionano alla realtà ebraica. “Gli ebrei sono…”, “voi ebrei siete…”, “loro, gli ebrei, hanno sempre fatto…”. Sono tutti inizi di frasi fatte di uso comune, con le quali si indicano comportamenti univoci da parte di un gruppo umano – gli ebrei – di cui quasi sempre chi pronuncia queste parole non sa granché. E, d’altra parte, nel mondo ebraico si tende a dare una rappresentazione unitaria che non corrisponde alle diverse anime che al suo interno convivono e spesso confliggono. Ho voluto proporre una visione complessa per cercare di far comprendere le diverse articolazioni che caratterizzano l’esperienza ebraica nella storia e oggi. Vorrei con le mie pagine proporre una narrazione alternativa alle semplificazioni ignobili e false che vanno per la maggiore. In effetti si tratta di un tentativo di fare politica tramite la riflessione e la cultura. Non so se ci sono riuscito. Nella seconda parte ho provato a proporre alcune risposte alle domande semplificatorie più comuni.
Andiamo con ordine. «Qual è la differenza tra un’affermazione antisemita e un’affermazione critica?»
Credo che la domanda sia posta in modo errato. Dovrebbe essere a tutti chiaro che l’antisemitismo (sia espresso in argomentazioni apparentemente innocue, sia quello che si è concretizzato nel tempo in effettivi atti legislativi di persecuzione) prima di essere un insulto o una minaccia per gli ebrei in carne ed ossa, è un pericolo effettivo per la tenuta delle democrazie. Tra Otto e Novecento la retorica antiebraica è stata uno strumento adottato da tutti i totalitarismi e le ideologie antiliberali. Se qualcuno si sente turbato nel venir definito antisemita a causa di una battuta o di un pensiero espresso in maniera maldestra si dovrebbe in effetti rendere conto della crescita di visibilità dell’antisemitismo che anche in Italia è un dato reale e preoccupante. Lo è certamente per le comunità ebraiche e per i singoli ebrei, ma soprattutto è pericolosa per la democrazia del paese. Se gli studenti ebrei o israeliani hanno timore a frequentare gli atenei, ciò che viene messo in discussione è più in generale il principio del diritto allo studio (articoli 33 e 34 della Costituzione). Se singoli docenti o dipartimenti o intere università chiedono di interrompere i rapporti con le università israeliane, viene minacciata direttamente la libertà di ricerca, che è il fondamento istituzionale proprio di quegli enti (articolo 9 della Costituzione). Se le sinagoghe sono presidiate dalle forze dell’ordine e frequentarle diventa un pericolo, è la libertà religiosa in Italia a essere minacciata (articolo 19 della Costituzione). Se gli ebrei hanno timore a circolare con la kippà o con la stella David al collo ed evitano di organizzare eventi pubblici vengono messe in discussione le libertà personali, di riunione e di movimento (articolo 13 della Costituzione). Si tratta a tutti gli effetti di minacce dirette ad alcuni dei principi della Costituzione repubblicana. Anche per queste ragioni, l’antisemitismo rappresenta una minaccia oggettiva alle libertà democratiche in Italia. Ed è per questo motivo che chi prova fastidio ad essere fatto oggetto dell’accusa di antisemitismo dovrebbe prima di tutto sforzarsi di riconoscere nelle proprie azioni e nei propri pensieri dei tratti che li hanno fatti riconoscere come antisemiti.
“Non sono antisemita, sono antisionista! E non potrei essere antisemita, perché i primi semiti sono proprio gli arabi e i palestinesi”.
L’antisemitismo è un’ideologia politica ben precisa e non indica una qualche forma di opposizione ai popoli semiti. Il pensiero razzista ottocentesco (su cui si è fondato il colonialismo) ha ipotizzato falsamente la suddivisione del genere umano in razze differenti (ariani o indo-europei, semiti e camiti i gruppi principali). Su questa base sono state elaborate e messe in pratica politiche razziste discriminatorie e progetti di sterminio. Quindi, chi afferma che i palestinesi o più genericamente gli arabi sarebbero le prime vittime dell’ideologia antisemita perché sono essi stessi semiti dice una sciocchezza destituita di valore scientifico e paradossalmente avvalora i fondamenti teorici delle politiche razziste e neocoloniali. “Semite” sono le lingue, non i popoli che le parlano. Per quel che riguarda l’antisionismo, questa affermazione è carica di conseguenze. Per comprendere come sia possibile rivendicare attivamente la legittimità di essere e dichiararsi antisionisti bisogna cercare di capire che cosa mai sia quel “sionismo” cui si dichiara di opporsi. Il sionismo è l’esito politico di un movimento di autodeterminazione dell’ebraismo europeo. Dirsi apertamente antisionisti significa quindi innanzitutto dichiarare che ci si oppone all’idea che gli ebrei abbiano diritto all’autodeterminazione nazionale. Il che non può essere definito in altro modo se non come antisemitismo, poiché ci si oppone a un diritto che gli ebrei (peraltro non tutti) reclamano per sé e che viene riconosciuto a tutti i gruppi umani, siano palestinesi o curdi, armeni o azeri e così via. Purtroppo, il termine “sionismo” oggi è distorto dalla dialettica politica, diventando l’equivalente di un movimento coloniale che produce un regime di apartheid e che è per sua natura genocidario, uno strumento economico-militare che opera al servizio dell’imperialismo. Ma il sionismo non è quella roba là, con buona pace dei movimenti che lo descrivono in questo modo.
“Un docente di storia di un liceo ha pubblicato sul sito della scuola una lettera-appello indirizzata alla comunità ebraica chiedendo di rispondere su come si intendesse affrontare il Giorno della Memoria in un momento storico percepito come diverso dagli altri perché coincidente con un periodo in cui «una parte di quel popolo vittima della Shoah… si è trasformata in carnefice»”.
La domanda è molto comune. Ritorna di recente sui muri delle nostre città. Recentemente l’ho letta declinata così: “Israele da oppresso a oppressore. Involuzione umana”. A mio parere c’è un problema semantico di fondo. La dicotomia vittima/persecutore appiattisce in maniera malata una realtà ben più complicata. Non c’è alcuna relazione storica né politica che leghi i drammatici bombardamenti su Gaza alla memoria della Shoah. È diverso il momento storico, è un’altra la situazione geopolitica, sono differenti gli attori. Se per ogni atto della storia dovessimo istituire connessioni con il passato (recente o lontano) non riusciremmo più a orientarci e a valutare le dinamiche della storia stessa. Il mio interlocutore vorrebbe in effetti sentire da me questa risposta: ebbene sì, i nuovi ebrei di oggi (le vittime) sono i palestinesi di Gaza, massacrati da un esercito assetato di sangue che si comporta come i nazisti fecero con gli ebrei. Questo sarebbe il senso di attualizzazione della Shoah. Ora, per quanto dolorosa e drammatica sia la sorte della popolazione civile palestinese a Gaza (e lo è, senza ombra di dubbio), il paragone non è sostenibile. Mentre è decisamente più pertinente, nell’ottica di una riflessione sul Giorno della Memoria e sul suo significato in un’epoca così drammatica come quella che stiamo vivendo, far notare che per la prima volta da quando nel 2000 è stato istituito il Giorno della Memoria in Italia si è registrata un’ondata di episodi antisemiti gravi. È peraltro corretta la necessità (soprattutto in chiave pedagogica) di suscitare la sensibilità di studentesse e studenti nei confronti dei gruppi umani vittime collettive di persecuzioni. In effetti tutte le guerre moderne vedono milioni di civili coinvolti, costretti a divenire profughi, massacrati e violentati. Cioè, sono vittime. Lo sono a Mariupol in Ucraina, dove tra febbraio e maggio 2022 sono stati uccisi tra i 25.000 e i 40.000 civili. Nel Tigrè, dove dal 2020 sono stati uccise centinaia di migliaia di persone, massacrate dagli eserciti eritreo ed etiope. Nel Kurdistan. E anche in Israele, dove ci sono stati migliaia di civili uccisi e feriti in un solo giorno, il 7 ottobre. Vittime che non erano solo ebrei né solo israeliani, ma anche musulmani, drusi, immigrati thailandesi, stranieri, massacrati e violentati da migliaia di terroristi palestinesi organizzati da Hamas e dalla Jihad islamica. Il modello delle vittime “pure” contrapposte ai persecutori “puri” è di grande successo, ma è falso, e ci viene proposto da fonti di comunicazione del tutto prive di controllo e di verifiche scientifiche. Aggiungo un concetto a cui tengo molto e che credo debba diventare un faro, un indicatore che guidi le iniziative educative e gli interventi anche di natura pubblica…
Vale a dire?
Il termine è “complessità”. Si tratta a tutti gli effetti dell’esatto opposto della propaganda e ha il difetto – sul piano del marketing intellettuale e politico – di non offrire al pubblico le certezze di cui va alla ricerca. Perché è importante la riflessione su questo concetto? Innanzitutto, perché è la risposta più efficace alla semplificazione proposta dal linguaggio antisemita. L’antisemitismo disegna un’icona monolitica e negativa dell’ebreo e ha bisogno di quella immagine semplice e ben identificabile. Senza di essa, grazie al dubbio instillato dalla complessità, l’antisemitismo perde la sua forza di persuasione. Inoltre, nell’ambito della riflessione sulla memoria della Shoah la complessità connessa all’utilizzo e all’incrocio di fonti differenti si pone in contrasto con la pratica malata e pericolosa dell’uso politico della storia e rende più difficoltosa la distorsione della storia stessa. Infine, nell’analisi del conflitto mediorientale la complessità dell’analisi e – di nuovo – delle fonti di informazione utilizzate mette in discussione le semplificazioni e le manipolazioni della realtà, restituendo a una situazione che è oggettivamente complicata la sua dimensione effettiva.