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Franco Corleone e gli scritti su Matteotti: un’antologia dell’etica antifascista

Franco Corleone e gli scritti su Matteotti: un’antologia dell’etica antifascista

«Il rischio degli anniversari è che si riducano a mera celebrazione o a strumentalizzazione fuori contesto». Per evitare la trappola – di cui si mostra consapevole – Franco Corleone ha progettato con grande intelligenza un’antologia di scritti su Matteotti (10 giugno 1924, il fascismo uccide la democrazia, Edizioni Menabò, 2024, pp. XXV-168). Corleone non è uno storico di professione, ma un militante politico (e appassionato bibliofilo) che guarda alla storia quale maestra per le battaglie di scopo del presente. Lotte politiche che combatte, spesso da trincee poco presidiate, all’insegna di un motto («Non mollare») ricalcato dall’omonima testata clandestina, fondata nel 1925 da un gruppo di intellettuali antifascisti: i fratelli Rosselli, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini. La raccolta di scritti selezionati risponde, dunque, a un’urgenza politica più legata al presente che al passato. E, proprio per questo, privilegia una chiave di lettura precisa dei fatti narrati e del loro contesto storico. Quale?

Corleone è un gobettiano negli ideali e un cultore di tutto ciò che ha a che fare con Piero Gobetti (libri, riviste, ritratti). Non stupisce che la parabola, esistenziale e politica, di Giacomo Matteotti venga ricostruita attraverso alcune preziose riflessioni del giovane intellettuale torinese: dalla riproduzione anastatica del suo volume Matteotti (pubblicato nel 1924) a una serie di articoli da lui firmati, tra il 10 giugno e l’11 novembre 1924, sul giornale di cui era direttore, La Rivoluzione liberale. Né stupisce che – tra gli altri testi dell’epoca qui riproposti – giganteggino tre articoli di Carlo Rosselli, pubblicati tra il 1930 e il 1934, fra le analisi più lucide del fascismo e degli errori compiuti dagli aventiniani. Completa il volume la riproduzione di alcuni testi di Matteotti (incluso il suo ultimo intervento in aula, il 30 maggio 1924).

Tra questi, l’articolo postumo pubblicato su English Life nel giugno 1924, che reca tracce delle autentiche ragioni del suo assassinio. Come accertato sul piano storiografico, infatti, Matteotti viene sequestrato e ucciso per impedirgli di svolgere (l’11 giugno 2024) un intervento parlamentare in cui, carte alla mano, avrebbe denunciato – correlandoli politicamente – l’esistenza di un buco di bilancio (smentendo l’intervento del Re nella solenne seduta di inizio legislatura) e le tangenti petrolifere versate dalla statunitense Sincler Oil al PNF e al fratello del duce, Arnaldo Mussolini. Così costruito, il volume antepone al martire il politico invitto, la cui postura molto insegna ancora oggi: Matteotti «non è un morto, non è un vinto, non è neppure un assassinato. Egli vive. Egli è qui presente, e pugnante. Egli è un accusatore. Egli è un giudicatore. Egli è un vindice […] di tutte le cose grandi, che Egli amò, che noi amammo, per le quali vivemmo, per le quali oggi più che mai abbiamo, anche se stanchi e sopraffatti dal disgusto, il dovere di vivere». Sono parole della commemorazione (riprodotta nel libro) che Filippo Turati svolge, il 27 giugno 1924, alla riunione degli aventiniani. Sono anche la traduzione fedele dell’operazione editoriale concepita da Corleone.

Così – come osserva Davide Conti nella sua postfazione – il lettore si ritrova in mano «una vera e propria antologia dell’etica antifascista». Proprio sul piano dell’etica (politica) si muove anche l’ampia prefazione di Corleone, Antifascismo etico nel nome dell’intransigenza (anticipata in estratto su l’Unità del 1° giugno). Intransigenti, infatti, sono le figure che rivivono nelle pagine del libro: Giacomo Matteotti, ovviamente, ma anche Piero Gobetti, Giovanni Conti (fondatore di Italia Libera), Carlo Rosselli. Nomi che abitano il personale pantheon politico del curatore del volume. Non a caso, il logo della collana dei libri nati dall’iniziativa politica della Società della Ragione (di cui Franco Corleone è, con Grazia Zuffa, il vero motore) rielabora graficamente quello della Piero Gobetti Editore, con il suo motto in greco ispirato da Vittorio Alfieri («Che ho io a che fare con gli schiavi?»). È, questa, una storia affascinante raccontata da Corleone in un suo precedente volume (Piero Gobetti e il logo ritrovato, Edizioni Menabò, 2021), sincero omaggio a un editore antifascista capace di pubblicare ben 115 volumi (tra il 1923 e il 1926), in un panorama editoriale quasi integralmente fascistizzato.

La scelta etica alla base dell’intransigenza politica di Matteotti è incarnata nel suo temperamento, che i contributi riproposti nel volume permettono di conoscere. Scrive Rosselli: «Matteotti possedeva in grado eminente una qualità rara tra gli italiani e rarissima tra i parlamentari: il carattere. Era tutto d’un pezzo. Alle sue idee ci credeva, e con ostinazione le applicava». «Non era eloquente; o per lo meno la sua eloquenza era tutto l’opposto dell’oratoria tradizionale socialista. Ragionava a base di fatti, freddo, preciso, tagliente». Scrive Gobetti: quando prendeva la parola in aula, Matteotti «non si esaltava mai. Cominciava pedestremente. Poi l’argomento – preparato sempre con accuratezza su un foglietto di carta – lo prendeva e la voce urlante, irritante, energica e rude squillava come per dominare. Allora parlava da padrone, come chi non improvvisa mai». «La sua voce precisa e nervosa, un poco velata, pareva fatta per le denunce specifiche, per le accuse inesorabili».

Matteotti, insomma, era un «personaggio sovranamente antipatico e nient’affatto suggestivo» (Corleone). Il suo antifascismo era innanzitutto antropologico, come emerge dal confronto tra la descrizione della tempra del deputato socialista (fatta da Gobetti) e quella del duce (fatta da Rosselli): «Matteotti non disertava, non si nascondeva, accettava la logica del suo “sovversivismo”, le conseguenze dell’eresia e dell’impopolarità». Quanto a Mussolini, invece, «la sua forza, la sua volontà, la sua energia sono un mito: egli è il buon romagnolo spavaldo coi timidi, bellicoso in tempo di pace, ma nelle bufere pacifista e sempre preoccupato del suo destino, e della sua sicurezza. L’avventuriero perde la testa durante il pericolo: la sua ossessione è di essere retrocesso». È questa istintiva incompatibilità a spiegare il verbo coniato dalla gazzarra fascista: «smatteottizzare» l’Italia.

Come annota Gobetti, «Matteotti non fu mai popolare». La cifra di fondo della parabola politica di Matteotti, infatti, va ricercata nella sua solitudine. Matteotti è solo perché, prima e meglio di altri, intuisce le peculiarità del fascismo non riducibile a mero braccio armato degli elementi più reazionari del capitale finanziario (secondo la vulgata della III Internazionale). Matteotti è solo nelle sue battaglie parlamentari, condotte con metodica acribia e studio scrupoloso che rendevano difficilmente contestabili le sue parole: «Metodo salveminiano. Quando affermava, provava» (Rosselli). Matteotti è solo anche dentro la sua parte politica: «social-traditore» per i comunisti; espulso dal PSI massimalista; in rapporti difficili anche con il padre del riformismo socialista, Filippo Turati. La fine è nota: Matteotti si troverà solo contro Mussolini, che era anche lui solo: solo al comando.

Al termine della lettura, la documentazione selezionata da Corleone rivela in Matteotti un autentico leader della socialdemocrazia europea, tra i primi a parlare (già nel 1923) di Stati Uniti d’Europa per superare «la frammentazione nazionalista in infiniti piccoli Stati turbolenti e rivali». Ecco perché – come ha osservato Aldo Cazzullo (Il capobanda, Mondadori, 2022, 117-118) – «tra le sue molte responsabilità, Mussolini ha anche quella di aver privato il Paese di figure che avrebbero contribuito a costruire un’Italia migliore»: vale per Matteotti, come per Gobetti, Rosselli, Gramsci, Leone Ginzburg, Giovanni Amendola. Uno dei meriti di questo libro è di restituirci la loro intransigenza, doverosa sempre quando è dato vivere in anni «torbidi» (aggettivo gobettiano di grande attualità).