Superata la soglia
Referendum contro il jobs act, Landini ha raccolto le 500mila firme: ma il Pd ancora deve prendere posizione
Il traguardo è stato raggiunto dalla Cgil in poco più di un mese, ma la raccolta andrà avanti. Le urne si apriranno in primavera, ma il Pd deve ancora prendere posizione
Politica - di David Romoli
Landini ce l’ha fatta: il mezzo milione di firme necessario per i referendum della Cgil è stato ampiamente superato in un mese e mezzo. Le firme, per ora sono poco più di 580mila ma saliranno perché la Cgil proseguirà con la raccolta nonostante non sia più necessario. I quesiti sui quali gli elettori saranno, o più precisamente potrebbero essere, chiamati a scegliere sono 4 e sommati smantellano il Jobs Act di Renzi. I primi due riguardano i licenziamenti, il primo contro il contratto a tutele crescenti, il secondo sull’indennizzo alle piccole imprese. Il terzo mira a reintrodurre le causali per i contratti a tempo determinato e interviene non solo sul Jobs Act ma anche su una norma del governo Meloni. Il quarto invece interviene sulla sicurezza, anzi sulla assoluta insicurezza nei posti di lavoro: riguarda gli appalti con la responsabilità del committente per gli infortuni.
Le urne dovrebbero aprirsi la prossima primavera. C’è dunque tutto il tempo perché si sviluppi lo psicodramma nel Pd. La segretaria ha firmato tutti i quesiti, come tutti gli altri leader del campo largo, Conte per i 5S, Fratoianni e Bonelli per Avs. Lei però, a differenza degli altri, ha firmato a titolo personale, senza impegnare il partito che guida ed è stato un passo sia sorprendente che molto criticato. Qui non si tratta infatti di un classico caso nei quali è usuale lasciare libertà di coscienza ma del fronte più politico che si possa immaginare: un referendum proposto dal sindacato per tradizione più vicino al Pd sui temi che Elly Schlein ha reso negli ultimi mesi il cavallo di battaglia. Il commento di Landini, “Vogliamo dare un futuro ai giovani, c’è una precarietà non più accettabile, vogliamo ridare dignità al lavoro”, combacia perfettamente con le posizioni del Pd. Il sostegno a titolo personale sembra inspiegabile.
La spiegazione, in realtà, è ovvia. La legge che il sindacato vuole abbattere non è stata introdotta dalla destra ma da un governo presieduto dall’allora segretario del Pd stesso. Valgono quindi le stesse remore che spingono il Pd a esitare nel decidere di ricorrere al referendum contro l’autonomia differenziata (quando sarà approvata), legge quanto mai impopolare al sud e che probabilmente è già costata a FdI una marea di voti ma che chiama in causa quella riforma costituzionale imposta dal centrosinistra nel 2001, l’introduzione del Titolo V sull’autonomia regionale, senza il quale non ci sarebbe oggi la riforma che vuol spaccare in due il Paese, separando i più ricchi dai pezzenti. È sintomatico che, nonostante la sconfitta di Renzi, abbia un po’ indebolito il potere di interdizioni degli ex renziani rimasti nel Pd, nessuno in quel partito abbia commentato ieri il traguardo tagliato in tempi record dalla Cgil, nonostante quei temi siano invece all’ordine del giorno nella propaganda non solo della segretaria ma dell’intero Pd.
Complici il premierato e l’autonomia differenziata, che in questi giorni impegnano nello scontro parlamentare e mediatico tutte le energie del Nazareno, per ora il partito di Elly non si è ancora posto il problema di come posizionarsi e probabilmente non lo farà prima di settembre. L’ipotesi più probabile è la libertà di voto: “Tanto la stragrande maggioranza voterà sì”, commenta un dirigente. Non manca chi pensa a come evitare la prova delle urne: con qualche emendamento in grado di recepire in parte i quesiti. Solo che dovrebbe esserci la complicità della maggioranza ed è ben poco probabile. “Decideranno i cittadini”, sentenzia il ministro Urso. Il problema è che i cittadini non decideranno col voto ma con l’astensione.
Come sempre nelle prove referendarie il voto degli astensionisti abituali, una massa in crescita impetuosa, si sommerà a quello dei contrari ai quesiti, che diserteranno le urne per far mancare il quorum. La sola possibilità di evitare quell’esito sarebbe una campagna davvero martellante e a distesa del Pd, incompatibile con la libertà di voto o con la firma della segretaria solo a titolo di privata cittadina. Elly Schlein si trova oggi in una posizione non priva di chiaroscuri. Ha ottenuto una vittoria brillante e che rende intoccabile la sua segreteria alle europee ma c’è riuscita grazie a un accordo con i vari potentati interni al Pd, quelli che con termine improprio vengono chiamati “i cacicchi”. È padrona del partito e allo stesso tempo ne è ostaggio. Un colpo di reni sul referendum, cioè sul terreno al quale il popolo di sinistra è più pronto a rispondere, chiarirebbe una volta per tutte quell’ambiguità anche nei rapporti di forza interni.