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La destra diceva “Aboliremo la Fornero”: ma si va in pensione più tardi e con meno soldi

Severe restrizioni su Opzione donna, Ape sociale ridimensionata, drastico taglio alle indicizzazioni che toglie 36 miliardi di euro dalle tasche degli anziani. Dei tanti bla bla di Salvini, non resta che l’amara realtà

Editoriali - di Cesare Damiano - 22 Giugno 2024

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La destra diceva “Aboliremo la Fornero”: ma si va in pensione più tardi e con meno soldi

L’Osservatorio dell’Inps sul monitoraggio dei flussi di pensionamento ci offre dati rilevanti, ancorché da consolidare, sull’andamento delle pensioni nel primo trimestre di quest’anno. Gli effetti negativi delle misure adottate dal governo Meloni sono evidenti nel rallentamento dell’accesso ai nuovi trattamenti pensionistici. In primo luogo, per quel che riguarda i dipendenti della Pubblica Amministrazione. Vediamo, perciò, il quadro dei primi tre mesi dell’anno. Trimestre che vede una situazione mutata radicalmente dall’introduzione dell’ultima versione di “Quota 103” che porta forti penalizzazioni basate sul calcolo contributivo del montante rispetto alla stessa “Quota 103”, versione 2023, che non le prevedeva. E, a maggior ragione, rispetto alla vecchia “Quota 100”: non ci stupisce quindi il fatto che, come dimostrano i dati Inps del primo trimestre, venga utilizzata pochissimo.

Per di più, “Quota 103” si conferma essere una soluzione che appare immaginata quasi esclusivamente per i lavoratori uomini. Infatti, già ora le lavoratrici possono andare in pensione, a prescindere dall’età anagrafica, al raggiungimento di 41 anni e 10 mesi di contribuzione. Gli stessi 41 anni di contributi richiesti da “Quota 103” (composta dall’età di 62 anni + 41). È di tutta evidenza che l’anticipo di 10 mesi, per di più con la penalizzazione dell’applicazione del calcolo contributivo su tutti i periodi lavorativi, non può rappresentare nessuna opportunità significativa per le lavoratrici oltre che essere per nulla conveniente. Le nuove pensioni liquidate nei primi tre mesi dell’anno sono state poco più di 187mila. Il calo dell’accesso ai nuovi trattamenti pensionistici è stato del 16,16% rispetto allo stesso periodo del 2023. Di questi, i trattamenti in anticipo rispetto ai requisiti della legge Fornero sono stati meno di un terzo, ossia circa 56mila.

Pesante il bilancio del divario di genere. Divario che ammonta, in campo previdenziale, al 32%. Mentre gli uomini ricevono un trattamento medio superiore ai 1.400 euro, quello delle donne si ferma a 999. L’attuale governo ha prodotto, sul tema previdenziale, un arretramento sul fronte dell’anticipo pensionistico producendo una serie di risultati estremamente negativi. Ha attuato severe restrizioni su Opzione Donna, una misura studiata per le lavoratrici, basata su un già penalizzante ricalcolo contributivo dell’intero montante pensionistico. Il governo Meloni l’ha resa ancor più punitiva: l’età minima è salita, dagli iniziali 58 anni (59 per le lavoratrici autonome), a 61 anni per le donne senza figli, 60 per le donne con un figlio e 59 per quelle che hanno più figli; il requisito contributivo è di 35 anni versati entro il 31 dicembre 2023; vi è, inoltre, una finestra mobile di 12 mesi per le lavoratrici dipendenti e di 18 mesi per quelle autonome, a partire dalla maturazione dei requisiti. Risultato: se nell’intero 2023 le lavoratrici che avevano avuto accesso a Opzione donna sono state 11.514, il primo trimestre 2024 vede 1.276 pensionamenti con questa misura. Mantenendo questa tendenza fino alla fine del 2024, le utilizzatrici di Opzione Donna risulterebbero essere meno della metà dell’anno scorso.

Ma la “tagliola” su Opzione Donna è stata aggravata ulteriormente da una serie di condizioni aggiuntive: assistere, alla data di presentazione della domanda di pensione, da almeno sei mesi, il coniuge, la parte dell’unione civile o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità o un parente, affine di secondo grado convivente, qualora i genitori, il coniuge o la persona unita civilmente dell’assistito abbiano compiuto i 70 anni di età o siano anche loro affetti da patologie invalidanti o deceduti o mancanti; soffrire di una riduzione della capacità lavorativa, accertata dalle competenti Commissioni per il riconoscimento dell’invalidità civile, pari o superiore al 74%; aver subìto il licenziamento o essere dipendenti di imprese per le quali è attivo un tavolo di crisi presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy. In pratica, si può affermare che siamo di fronte a un tentativo di “neutralizzare” tale strumento rendendo sempre più stretta la “cruna dell’ago” che la lavoratrice deve attraversare per ottenere l’anticipo pensionistico.

Oltre a ridimensionare Opzione Donna, così come l’Ape sociale, il governo Meloni ha compiuto un atto grave nel merito delle indicizzazioni. Il governo Draghi aveva previsto un’indicizzazione più favorevole. Con il taglio delle indicizzazioni a danno di chi riceve una pensione lorda che parta dai 2.100 euro mensili, (al netto circa 1.500 euro), il governo Meloni ha messo in cantiere un risparmio a danno dei pensionati di 36 miliardi di euro in dieci anni, in tempi di alta inflazione. E dobbiamo sottolineare che parliamo di pensioni in essere, di chi non ha più scelta e subisce un taglio del proprio reddito dopo una vita di lavoro e contribuzione. Si tratta del ceto medio del lavoro, non solo di pensioni ricche: 1.500 euro netti di pensione riguardano impiegati e operai. Altrettanto grave, al di là delle tante parole che si sono espresse per i giovani, la scelta del governo Meloni di aumentare il valore-soglia a partire dal quale i giovani, con la pensione tutta contributiva, perché hanno iniziato a lavorare dall’1 gennaio 1996, possono accedere alla pensione, a partire dai 64 anni di età, non più avendo un assegno maturato corrispondente a 2,8 volte il minimo, ma addirittura a 3 volte. Si è andati cioè nella direzione opposta a quella necessaria, ossia abbassare ad 1,5 quel valore così come richiesto dai sindacati. In tal modo, come dimostra la simulazione effettuata dall’Inps attraverso lo strumento “Pensami”, i giovani che oggi hanno 30 anni andranno in pensione a 70.

Possiamo quindi affermare che il 2023 ha rappresentato un anno horribilis sul fronte previdenziale. Il 2024 non andrà meglio e potremo solo augurarci che il 2025 non sia peggiore. Infatti, quello in corso sarà l’anno nel quale, nella redazione della legge di Bilancio, dovremmo confrontarci con regole severe del nuovo Patto di stabilità e nel quale molto probabilmente ci arriverà dall’Unione, così come per altri Paesi, una procedura di infrazione per eccesso di deficit. In questo contesto il tema Previdenza non troverà udienza e nella prossima finanziaria sarà la grande assente tra le misure adottate, se non per via di qualche ritocco, probabilmente peggiorativo. Tutto ciò a fronte delle roboanti promesse fatte nelle varie campagne elettorali da Matteo Salvini e dal Governo in cerca di consensi. Anche di recente Salvini ha rilanciato il progetto di “Quota 41”, cioè la possibilità di andare in pensione indipendentemente dall’età anagrafica, con 41 anni di contributi, continuando peraltro ad utilizzare in modo del tutto improprio il termine “Quota”, non più composta da una somma di età anagrafica e anzianità contributiva flessibili, ma da una soglia rigida. Misura, in origine, inventata durante il secondo Governo Prodi. Possiamo dire con certezza che questa promessa rimarrà tale e non diventerà mai realtà, non essendoci risorse sufficienti per poterla attuare, come chiaramente sostenuto dal binomio Meloni-Giorgetti. Quindi di tutto questo bel parlare della Lega non se ne farà nulla.

Il mancato intervento sul fronte pensionistico lascerà morti e feriti e il peggioramento prodotto è tale tanto da indurre più di qualcuno a chiedersi se non sia addirittura meglio preservare il vituperato e crudele sistema Fornero che noi abbiamo combattuto e corretto nelle precedenti legislature con ben 9 salvaguardie, a tutela degli esodati, consentendo ad oltre 150.000 di loro di andare in pensione con le vecchie regole. E che l’espressione “morti e feriti” non sia solo metaforica è confermato dalla circostanza che con l’avanzare dell’età aumentano anche i rischi di incidenti sul lavoro, così come le recenti stragi ci hanno drammaticamente ricordato. Sarebbe opportuno invece, al fine di fare un passo avanti nella direzione della garanzia dei diritti dei giovani e dei pensionati, proseguire nel solco della distinzione delle platee già effettuata con i lavori usuranti e i lavori gravosi, con l’ultimo allargamento voluto dalla Commissione da me presieduta quando Andrea Orlando era ministro del Lavoro, perché non tutti i lavori sono uguali. Per i lavori usuranti è previsto un anticipo pensionistico attraverso il riconoscimento delle vecchie “Quote”, quelle vere del 2007, senza penalizzazioni, e per i lavori gravosi un assegno ponte, con un tetto di 1.500 euro lordi mensili, in attesa di maturare i requisiti per l’uscita pensionistica con le regole della legge Fornero. Regole che vanno mantenute.

Accanto alle regole che valgono per queste platee, proponiamo l’introduzione di un principio di flessibilità estendibile a tutti gli altri lavoratori (non riconducibili ai lavori usuranti o gravosi) attraverso una penalizzazione massima del 3% per ogni anno di anticipo da applicare sul montante retributivo, a partire sempre dai 64 anni di età. In secondo luogo, la riduzione a 1,5 volte il minimo del valore-soglia per l’accesso alla pensione per i giovani con regime totalmente contributivo, a partire, anche in questo caso, dai 64 anni di età. Con queste proposte si riuscirebbe a garantire l’equilibrio del sistema previdenziale rendendolo flessibile e adatto alla definitiva e progressiva entrata in vigore del sistema contributivo. Va anche osservato che in Parlamento giacciono attualmente 23 proposte di legge che riguardano le pensioni, presentate da esponenti di tutti i Partiti. Si tratta di provvedimenti settoriali che riguardano particolari categorie, marittimi, vigili del fuoco, forze di polizia, oppure l’indicizzazione degli assegni.

L’unico disegno di legge più organico è quello presentato dalla parlamentare del PD Debora Serracchiani che si propone di introdurre misure di flessibilità. Noi ci auguriamo che su questo tema, che è sempre stato al centro del nostro interessa, riprenda il dibattito, si faccia chiarezza e si abbia il coraggio di realizzare un vera riforma strutturale basata sulla flessibilità. Constatiamo l’indiscutibile capacità di Giorgia Meloni di vivere vite parallele: la premier è in grado di tenere la scena internazionale nel gioco delle alleanze e dei posizionamenti e, contemporaneamente, di mascherare con abilità gli innumerevoli passi indietro fatti compiere all’Italia sul terreno sociale: dalla previdenza, alla tutela dei più poveri (vedi il nuovo Assegno di Inclusione), alla sanità.

cesaredamiano.org

22 Giugno 2024

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