Giorgia Meloni non è solo nervosa. È preoccupata, anzi spaventata. Impossibile interpretare altrimenti la decisione di rivolgersi ieri agli italiani con un video su Fb il grosso del quale è una appassionata arringa in difesa dell’autonomia differenziata e il resto accuse violentissime contro l’opposizione. Non una parola sulle elezioni, e non si era mai audito un simile silenzio all’indomani di una prova elettorale importante. Non un sussurro sui vertici istituzionali europei. La premier ne parlerà oggi in Parlamento, nella abituale informativa alla viglia dei Consigli europei ma la scelta di tacere sulla vicenda che più la ha tenuta impegnata nell’ultima settimana è quanto meno indicativa. La premier batte e ribatte sull’autonomia differenziata perché sa che lì è il punto debole che può provocare la frana dei suoi consensi.
La difesa è in parte efficace non tanto per suo merito quanto per demerito del centrosinistra e in particolare della filiera PdS-Ds-Pd. “L’autonomia differenziata la proponeva già trent’anni fa Occhetto. Era più avanti di Elly Schlein”, ricorda mostrando il programma del PdS di allora. A introdurla, prosegue, è stato il governo Amato con una riforma costituzionale imposta a colpi di maggioranza nel 2001 preparata già dai precedenti governi Prodi e D’Alema. La sua autonomia è solo l’attuazione di quell’autonomia. Impossibile negare. A reclamare di procedere con quell’attuazione rinviata per 23 anni, segnala, non sono state solo le Regioni del nord governate dalla destra ma anche moltissime governate dal centrosinistra. Prima fra tutte l’Emilia di Bonaccini ma persino la Campania di De Luca “che oggi si straccia le vesti”. E Giani, governatore della Toscana, affermava poco tempo fa che “l’autonomia differenziata è di sinistra”.
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La confusione e gli errori spesso clamorosi del centrosinistra sono un bersaglio facile. Ma quando si tratta di difendere la riforma e non solo di dividere le responsabilità con gli avversari il discorso della premier nel lungo videomessaggio diventa molto meno incisivo. La sola garanzia di non dividere l’Italia in aree ricche e aree povere che riesce a offrire è sottolineare come questa legge sia per ora una cornice, o meglio una scatola vuota: per giudicarla bisognerà attendere che le intese tra Stato e Regioni ci siano davvero, e anche qui i toni sono molto prudenti, sembra quasi che la premier voglia far capire che concedere l’autonomia non sarà affatto automatico, anzi. In ogni caso prima ci saranno i Lep, i Livelli essenziali di prestazione, e per definirli ci vorranno due anni, e ci saranno i fondi di perequazione, sempre che lo Stato disponga di quattrini a sufficienza. Insomma, più che difendere ed esaltare una riforma che sa essere detestata da oltre mezza Italia, la premier ha provato a minimizzare. Salvo ritrovare verve e grinta per accusare l’opposizione di essere “irresponsabile”, di usare “toni da guerra civile”, di volerla addirittura vedere “massacrata e appesa a testa in giù”, di voler solo “difendere lo status quo”.
L’intemerata è controproducente. Rivela insicurezza e paura. Elly Schlein, che dalle urne è uscita vincitrice davvero, ha gioco facile nel rispondere: “Capisco la volontà di parlar d’altro e la difficoltà di accettare una sconfitta 6 a 0 nei capoluoghi di regione, ma i nostri toni non sono mai stati da guerra civile. Abituiamoci a fare l’analisi della vittoria perché continueremo a battere la destra. Stiamo arrivando”. La segretaria del Pd è particolarmente sferzante quando commenta le parole del presidente del Senato La Russa, che vorrebbe eliminare il doppio turno nelle amministrative: “Non è che quando si perde si aboliscono le elezioni. Non si scappa col pallone in mano”. In realtà la proposta di La Russa, a sconfitta appena consumata, era scomposta e rivelava la stessa tensione estrema della premier nel suo messaggio. Ma non significa che La Russa dicesse per dire. La destra ha davvero l’intenzione di provare a cancellare il doppio turno. Ma se le elezioni di ieri fossero state a turno unico l’esito sarebbe stato identico.