“Ci sono tre partiti che si considerano maggioranza in Europa e distribuiscono incarichi apicali. Lo vedremo in Parlamento col tempo”: una Giorgia Meloni così furibonda non si era mai vista. Nella relazione alle Camere in vista della riunione del Consiglio europeo di oggi e domani, la premier martella sull’umiliazione cocentissima inflittale per due volte di seguito nella trattativa per i vertici europei. Guida il terzo gruppo europarlamentare per numero di eurodeputati, al quale è sempre spettato l’Alto commissariato per la politica estera. Stavolta non è neppure stata consultata. È premier del terzo Paese dell’Unione per importanza: i sei “negoziatori” dei tre partiti della maggioranza Ursula, Ppe, Pse e liberali, la hanno tenuta fuori dalla porta e quei sei negoziatori erano i leader del principali Paesi dell’Unione.
Tutti tranne l’Italia, relegata nell’angolo con la sua premier di nuovo costretta nella parte della underdog. Involontariamente dà una mano all’intemerata della premier offesa la Pd Madia, che difende la scelta dei negoziatori perché democratica: i tre ruoli apicali spettano ai tre gruppi principali. “Però il terzo gruppo è Ecr, non i liberali”, ribatte comoda Meloni. “C’è una convention ad excludendum in salsa europea. A nome del governo ho apertamente contestato e non intendo accettare”, scandisce la presidente e suona come minaccia esplicita di negare a Bruxelles il sostegno alla candidatura dell’amica Ursula. Il voto contrario significherebbe essere schiacciata sulle posizioni estreme di Orbàn, Le Pen e Meloni. Quello a favore, a maggior ragione dopo la requisitoria di ieri, equivarrebbe a una genuflessione. Resta l’astensione, già minacciata a botta calda dopo che, accelerando a sorpresa, i sei negoziatori avevano concordato le candidature, martedì pomeriggio in videoconferenza, senza neppure attendere il vertice di oggi. Sarebbe anche quella una scelta deflagrante.
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A norma di regolamento per indicare i top jobs bastano i capi di governo di 15 Paesi in rappresentanza di almeno il 65% della popolazione della Ue. Però non è mai successo che una candidatura non fosse approvata all’unanimità. L’astensione, inoltre, sarebbe un segnale negativo molto forte per quanto riguarda il voto del 18 luglio a Strasburgo, quando il Parlamento europeo dovrà ratificare a maggioranza assoluta la presidenza della Commissione indicata dal Consiglio. È evidente che la premier intende adoperare quell’arma di ricatto per strappare un risultato tale da riscattare l’umiliazione subìta. Ieri ha fatto capire apertamente di mirare a una posizione anche più forte di quella che spettava all’Italia nella Commissione uscente: trattandosi dell’Economia non è che si tratti di un obiettivo facile. Del resto un commissario pesante, vicesegretario con funzioni esecutive, avrebbe potuto ottenerlo subito, a patto di accettare il declassamento non come premier italiana ma come leader della destra. Col braccio di ferro, anzi, rischia addirittura di portare a casa una posizione meno rilevante.
Neppure sulla linea politica Giorgia poteva lamentarsi troppo. La posizione della candidata Ursula sull’immigrazione, notificata ieri con apposita e tempestiva lettera, combacia con quella dell’inquilina di Chigi come una fotocopia. In ballo c’è dunque il riconoscimento politico, ed è il nodo meno facile da sciogliere. Macron e Scholz, i leader che hanno imposto di estendere il cordone sanitario antidestra anche alla leader dei Conservatori, lo hanno fatto per debolezza e dunque non possono arretrare. Riconoscere piena legittimità democratica alla premier italiana significherebbe aprire un varco, anzi l’intera porta, ai nemici che li incalzano in casa: Le Pen in Francia, l’AfD al galoppo in Germania. La trattativa con Meloni costerebbe a Ursula il voto del Pse o almeno di una sua cospicua parte, tra cui il Pd italiano come segnala a lettere chiarissime Elly Schlein. Ma anche rompere col terzo Paese dell’Unione è un passo che non si può fare a cuor leggero. Persino il capo dello Stato Mattarella, nel tradizionale pranzo con il governo alla vigilia del Consiglio, si è dovuto giocoforza schierare: “Dall’Italia non si può prescindere”.
Senza il sostegno di una parte almeno di Ecr, inoltre, la presidente uscente che spera di rientrare subito rischierebbe di brutto nell’aula di Strasburgo, dove i franchi tiratori si contano spesso a decine. Né se la vedrebbe meglio se arrivassero in soccorso, dopo apposita trattativa ma stavolta alla luce del sole i Verdi. In questo caso a disertare il voto sarebbe una parte del Ppe, con FI in prima linea: “Voteremo per von der Leyen, ma solo se non ci saranno i Verdi”, avverte Tajani. Ma in fondo il voto del 18 luglio è molto meno significativo di quanto non appaia in questi giorni convulsi. Non è quello il problema maggiore. A Strasburgo una maggioranza propriamente detta, come nel Parlamento italiano, non c’è. Le maggioranze si formano e si disfano a seconda dei singoli provvedimenti e ciò assegna a un gruppo forte e in grado di fare sponda col resto della destra europea ampie possibilità di guerriglia e sabotaggio e Meloni sembra avere tutte le intenzione, se del caso, di avvalersene. “Ho sentito dire da un esponente dell’opposizione che in Europa c’è una maggioranza esistente e resistente. Che resista è certo. Se esiste lo vedremo col tempo”. Non si può dire che la legislatura europea parta con i migliori auspici.