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Intervista a Enrico Morando: “Renzi e Calenda? I loro elettori si concepiscono a sinistra, non c’è spazio per un centro autonomo”

Intervista a Enrico Morando: “Renzi e Calenda? I loro elettori si concepiscono a sinistra, non c’è spazio per un centro autonomo”

L’Europa che esce dal voto dell’8-9 giugno, i buoni risultati del PD e le sfide del cambiamento viste da un “riformista doc”: Enrico Morando, leader dell’area liberal del Pd, tra i fondatori dell’associazione di cultura politica Libertà Eguale, già viceministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni.

Francia, Germania, Austria, Belgio…Un vento di destra imperversa in Europa. Come arginarlo?
Se si guarda alla nuova composizione del Parlamento europeo, si vede che i preesistenti rapporti di forza non sono stati sconvolti. Il PPE si è confermato la forza maggiore; ha difeso il metodo democratico di una “vera candidatura” alla carica di presidente della Commissione ed appare in grado di confermare von der Leyen, nel contesto della tradizionale alleanza con i socialisti e i liberali, che ora si cerca di estendere ai verdi.
Mi sembra significativo che la destra sovranista abbia dovuto registrare risultati meno brillanti nei Paesi dell’est europeo, dove si segnala una qualche inversione di tendenza anche sul versante della partecipazione: resta più bassa di quella dell’Europa occidentale, ma cresce rispetto al passato. È un segnale confortante: la minaccia che l’imperialismo di Putin fa gravare su quei Paesi e il convinto sostegno degli USA e dell’Unione alla resistenza ucraina sembrano aver contribuito a rafforzare tra i cittadini dell’est europeo la credibilità del “progetto europeo”. Non era scontato. Temo però che la consapevolezza di queste note positive emerse dal voto induca i leader della “maggioranza Ursula” a comportarsi come dopo uno scampato pericolo: passata la paura, si torna all’usuale. Concentrandosi piuttosto sui guai “nazionali” emersi dal voto.

Cosa non la convince delle trattative in corso a Bruxelles?
La genericità del documento sull’Agenda da mettere alla base della nomina/elezione di von der Leyen, Costa e Kallas è lo specchio del prevalere di questa posizione: programma usuale per far fronte a problemi usuali. Peccato che nella realtà di “usuale” ci sia poco o nulla. A fronte di un mondo sconvolto dalla guerra scatenata da Putin e dal suo tentativo di cementare l’alleanza delle autocrazie contro l’Occidente; alla vigilia di un voto che potrebbe riportare Trump alla guida degli Stati Uniti d’America; mentre si accentua la debolezza europea di fronte alle sfide della competizione globale, l’Unione deve cambiare profondamente, deve introdurre innovazioni radicali nel suo modo di essere e di agire, pena la progressiva irrilevanza e la disgregazione. Non c’è più tempo per crogiolarci nell’usuale. Lo dimostra proprio l’esperienza compiuta durante gli ultimi cinque anni: da più di 10 anni parlavamo di capacità fiscale dell’Unione, senza cavarne nulla di apprezzabile. Poi, in pochi mesi, sotto l’urto del Covid, abbiamo varato Next Generation EU (un programma finanziato da debito europeo, emesso sul merito di credito dell’Unione come tale), aprendo la strada ad un vero Bilancio europeo. E l’Unione è stata protagonista del gigantesco sforzo comune che ha portato al “miracolo” della produzione e della efficace distribuzione dei vaccini. E ancora: per decenni abbiamo discusso di difesa e politica estera europea, senza cavare un ragno dal buco. Poi, in pochi mesi, abbiamo impegnato l’intera Unione -nell’ambito della Nato, in un gigantesco sforzo per aiutare, anche sul piano militare, la guerra di resistenza del popolo ucraino. Passi formidabili verso l’integrazione. Non programmati, ma effettivamente compiuti. Ora, quando si tratterebbe di dare una cornice sistemica a questi “miracoli” di integrazione compiuti in emergenza, rischiamo di fermarci. È questo il vero rischio, molto al di là dell’avanzata della destra…

A “deragliare” sono soprattutto le “locomotive” franco-tedesca. Molto si parla, anche per l’imminenza del primo turno delle legislative, della Francia. Ma in prospettiva non dà più pensieri la crisi della Spd in Germania?
In ottica europea, deve preoccuparci il possibile (e probabile) blocco del “motore“ franco-tedesco. Due governi deboli non possono costituirsi nel nucleo promotore di quella radicale innovazione dell’Unione di cui ho appena parlato. All’origine di questa debolezza -se si spinge lo sguardo un po’ più a fondo- ci sono tre scelte fondamentali dell’era Merkel: la crescita economica tedesca trainata dalle esportazioni, senza curarsi degli squilibri che l’enorme attivo della locomotiva tedesca determinava nell’area euro. La convinzione che alla sicurezza della Germania e dell’Europa avrebbero pensato-ora e per sempre- gli americani, e che il gas russo avrebbe fornito allo sviluppo produttivo tedesco tutta l’energia necessaria. Il rischio è che si pensi a soluzioni “nazionali” dei problemi aperti dalla crisi di questo modello. Mentre queste soluzioni si possono trovare solo alla dimensione dell’Unione. I rapporti di Letta e Draghi lo hanno chiarito bene, ma i governi sembrano avere paura delle loro opinioni pubbliche. È una vera e propria crisi di leadership che non si cura con il bilancino per l’assegnazione degli incarichi di vertice nell’Unione.

Veniamo all’Italia. Alla crescita del Partito Democratico e all’inaspettato risultato della sinistra-sinistra di AVS, fa da contraltare il flop del Movimento 5Stelle di Conte. Una crisi irreversibile? È irreversibile anche la crisi dei centristi?
Credo che meriti più attenzione l’enorme astensione: chiunque pensi di trarre conclusioni definitive da un voto cui la maggioranza dei cittadini elettori non ha partecipato, rischia di prendere fischi per fiaschi. Detto questo, credo che l’esito elettorale contribuisca in modo determinante ad un processo chiarificatore: l’annuncio di morte avvenuta del bipolarismo era esagerato. La stragrande maggioranza di chi va a votare “pensa” (e vota) in chiave bipolare. Di più: all’interno dei due poli, l’attenzione degli elettori si concentra sulle formazioni che, in ognuno dei due campi, hanno vocazione maggioritaria. Lo fanno da anni gli elettori del centro-destra. E tornano a farlo anche gli elettori dei partiti di opposizione. Gli elettori delle Europee -ampiamente confermati da quelli delle Amministrative e dei conseguenti ballottaggi- hanno fatto emergere rapporti di forza difficilmente equivocabili: è il PD il partito che -se vuole- ha le condizioni di consenso e di radicamento che gli affidano l’onore e l’onere di costruire attorno a sé un sistema di alleanze politiche, di rapporti sociali e di soluzioni programmatiche e di leadership per l’alternativa di governo. Allo stesso tempo, l’esito elettorale chiarisce che il progetto politico di un “centro “effettivamente autonomo, alternativo sia alla destra, sia alla sinistra, non ha spazio per una piena affermazione. Se guardo a questo tema dal versante del centro-sinistra, vedo che ci sono milioni di elettori che hanno sostenuto IV e Azione e si concepiscono come parte del centro sinistra di governo. Qui la scelta è tra due strade, tra di loro non del tutto incompatibili. La prima: si costituisce, verso il centro dello schieramento politico, un partito junior partner del PD, organicamente parte della coalizione di centro sinistra. È una soluzione più facile, ma meno attraente: i partiti junior partner hanno strutturali limiti nell’influenzare l’agenda della coalizione (e del governo). Oppure, il PD non delega ad altri la rappresentanza di questi elettori, ma ambisce ad assumerla in prima persona, tornando ad essere effettivamente quello che ha promesso di diventare con il suo atto di nascita: un partito di centrosinistra. È una soluzione più difficile, ma più promettente.

Si era detto che le elezioni europee sarebbero state una “prova del nove” per Elly Schlein. Promossa a pieni voti?
Per me, la prova del nove sta nella capacità di costruire una credibile alternativa di governo al destra-centro di Meloni. Quindi, c’è ancora molto da fare. Detto questo, la campagna elettorale del PD è stata efficace nel “bipartitizzare” il confronto: o Fratelli d’ Italia o il Partito Democratico. O Meloni o Schlein. Ha funzionato.

In Italia esiste ancora la schiavitù. Una considerazione che emerge, in tutta la sua drammaticità, dalla morte di Satnam Singh, il giovane lavoratore indiano ucciso da una macchina agricola mentre lavorava nei campi vicino a Latina e abbandonato dai suoi datori di lavoro senza soccorsi e con un braccio tagliato via dalla macchina e sistemato in una cassetta della frutta. E la politica?
La politica deve fare meglio la sua parte. Malgrado l’idea imperante secondo la quale tutti i problemi si risolvono con il codice penale, la soluzione non è l’aumento delle pene aggiungendo regole a regole. Le regole ci sono. E prevedono pene severe. Bisogna smetterla di far finta di non vedere, girando la testa dall’altra parte: migliaia di lavoratori schiavizzati e comunque sottopagati, privati della loro dignità di persone, deboli perché privi di permesso di soggiorno, costretti a vivere in baraccopoli… Chi produce “per il mercato“violando le regole fondamentali che lo Stato ha dettato per la tutela della dignità umana (e per fare in modo che il mercato si sviluppi nel suo pieno rispetto), deve essere messo in condizione di non nuocere. Usando tutti i mezzi di cui lo Stato dispone.

La battaglia contro l’autonomia differenziata. Qual è la posta in gioco?
Io ho votato a favore del nuovo Titolo quinto della Costituzione e dell’art. 116. Non me ne pento. Chi pensa che quell’articolo sia pericoloso per l’unità della Repubblica dovrebbe avere l’onestà di dirlo e di dar vita ad una riforma costituzionale volta ad abrogarlo o a modificarlo. Trovo imbarazzante che gran parte degli argomenti usati contro la legge Calderoli riguardi in realtà la norma costituzionale, senza riconoscerlo apertamente. Detto questo, qual è il problema della legge Calderoli? È il fatto che essa pretende di procedere all’attuazione dell’art. 116 prima di aver dato vita ad una vera Camera delle Regioni, cioè ad un ramo del Parlamento nazionale che sia la sede del confronto tra Stato centrale (Camera politica e Governo) e le Regioni. Pretesa aggravata dal fatto che la stessa definizione dei LEP (livelli essenziali delle prestazioni) -in assenza della Camera delle Regioni -avviene in sede tecnico-burocratica. È una fretta che alimenta il sospetto che si voglia agire con colpi di mano, su iniziativa esclusiva del Governo, nel rapporto con le “sue” Regioni. Questo merita un’opposizione intransigente.