Le nomine europee
Giorgia Meloni in quarantena in UE: la sua strategia catastrofica e Salvini che urla al Colpo di Stato
“Nomine sbagliate nel merito e nel metodo”, si indigna Meloni. Che si astiene sulla nomina di von der Leyen. Ma la sua strategia è stata catastrofica
Politica - di David Romoli
“Nomine sbagliate nel merito e nel metodo. Non potevo fare altrimenti”, ha dichiarato Giorgia Meloni nella notte della grande batosta a Bruxelles. Almeno la seconda parte dell’enunciato è certamente vera. Messa all’angolo, emarginata, isolata e umiliata dal Pse e dai Liberali, cioè dal Cancelliere Scholz e dal presidente Macron, risarcita con parole fiorite ma vuote di sostanza dal Ppe, la premier italiana non aveva altra strada che quella imboccata. Ha votato contro la presidenza del Consiglio europeo al portoghese Costa e dell’Alto commissariato agli Esteri alla estone Kallas per dare un segnale forte ma privo di conseguenze concrete. Si è astenuta sulla candidatura von der Leyen alla guida della Commissione europea per segnalare che il suo supporto nell’aula di Strasburgo non c’è ma potrebbe esserci. Con 399 voti sulla carta, pochi rispetto ai 361 necessari tenendo conto dell’abituale altissima percentuale di franchi tiratori, Ursula ha bisogno del supporto di FdI. La premier spera di strappare nella trattativa qualcosa che la salvi dal fallimento di una strategia politica impostata e seguita pazientemente per due anni.
Il tracollo di Giorgia va molto oltre l’essere stata messa all’angolo in un’occasione particolarmente centrale. L’Europa è stata da quando è entrata a palazzo Chigi la sua grande scommessa e per un po’ il suo punto di forza. L’obiettivo, conclamato, era imporsi come perno e regista di uno spostamento a destra degli equilibri dell’Unione. La centralità in Europa doveva anche essere la risposta ai tentativi di riportarla nel ghetto degli impresentabili in patria: non si contano le volte in cui si è vantata di aver restituito all’Italia protagonismo e centralità. Per questo Macron e Scholz, consapevoli di avere ancora i numeri necessari per garantire la maggioranza con il Ppe senza di lei e soprattutto di poter tenere sotto scacco i popolari minacciando di non appoggiare nell’aula di Strasburgo la loro candidata, la hanno messa in trappola costringendola nella parte opposta a quella che sperava e pensava di poter interpretare: quella della paria del tutto ininfluente, tanto da non dover neppure essere consultata per cortesia prima di spartirsi gli incarichi.
La ricaduta della mazzata è pesantissima soprattutto a destra. Il fallimento della strategia di apertura incarnata dalla presidente italiana va a tutto vantaggio di quella opposta perseguita dai duri di Identità e Democrazia, Marine Le Pen e il Salvini che già strilla contro “il colpo di Stato a Bruxelles”. Il crollo non si ferma qui: il tentativo fallito di fare asse con i popolari costa alla leader di Ecr l’alleanza con Orbàn, che sta cercando di dar vita a un terzo gruppo parlamentare di destra, e rischia di doverlo pagare anche con lo sfarinamento dei suoi Conservatori, che l’uscita del Pis polacco degraderebbe da terzo a quinto gruppo più forte nell’aula di Strasburgo. Senza contare che anche nelle file Ecr non tentate dalla dipartita la sua linea è minoritaria. Insomma, un disastro.
Sulla carta la speranza di ottenere, in cambio dei voti a Strasburgo, un commissario di peso enorme, tale da ribaltare l’esito della sfida, non è priva di fondamento. Nella realtà il quadro è molto meno roseo, per lei. Per restaurare l’immagine sfregiata dovrebbe riuscire a soffiare il posto di vicepresidente esecutivo e commissario al mercato unico e all’industria al francese Thierry Breton che già detiene quelle deleghe.
Farcela è quasi impossibile, sia perché l’intenzione dei registi è modificare la commissione il meno possibile, riproponendo quasi tutti i commissari uscenti, come appunto Breton, sia perché socialisti e liberali hanno tutte le intenzioni di proseguire nel pressing per tenere il governo di destra italiano ai margini. Non a caso a gestire le trattative è ora Tajani, considerato il solo esponente del governo italiano accettabile e presentabile in quanto esponente del Ppe. Di certo all’Italia non sarà offerto un commissario irrilevante: non sarebbe possibile farlo con il terzo Paese dell’Unione e oltretutto significherebbe creare una tensione con il Quirinale, che non a caso ha fatto in modo di rendere nota la sua posizione nei giorni scorsi. Ma non sarà neppure quella nomina eclatante che potrebbe risollevare le sorti in picchiata dell’immagine della premier italiana. Se andrà davvero così, come è probabile ma non certo essendo di mezzo le elezioni francesi, Giorgia Meloni si troverà il 18 luglio alle prese con una scelta tra le più difficili. Dovrà decidere se appoggiare comunque von der Leyen o se farle mancare i propri voti, mettendosi contro quella che è stata sinora la sua alleata numero uno a Bruxelles e col rischio, se la candidata ce la farà anche senza di lei, di restare chiusa a vita nel ghetto dei reprobi e dei paria politici. Non è una bella prospettiva per chi, dopo le europee e dopo il successo del G7, si immaginava cardine degli equilibri nell’Unione europea.