La manifestazione e Tel Aviv

“Israele non è solo Netanyahu”, l’analisi di Gideon Levy

«Bisogna contrastare la comunicazione militarizzata», scrive Levy su Haaretz. Mentre Ben-Gvir dice che andrebbero giustiziati tutti i prigionieri palestinesi, senza distinzioni

Esteri - di Umberto De Giovannangeli - 2 Luglio 2024

CONDIVIDI

“Israele non è solo Netanyahu”, l’analisi di Gideon Levy

No, i panni sporchi non si lavano in famiglia. Soprattutto quando sono panni intrisi di sangue, che intendono coprire l’indifendibile. Per ripulirli davvero, quei “panni” vanno lavati all’estero, specie se a dominare è un racconto mainstream. È ciò che fa Gideon Levy, icona vivente del giornalismo “radical” israeliano. Lo fa, su Haaretz, raccontando dove, come e, soprattutto, perché.
Scrive Levy: “Perché sono apparso all’estero? Perché lavare i panni sporchi lì? Innanzitutto, perché all’estero c’è molto più interesse e voglia di ascoltare che qui. Il dibattito pubblico a cui ho partecipato la scorsa settimana a Toronto con Mehdi Hasan, Douglas Murray e Natasha Hausdorf verteva sulla questione se l’antisionismo sia antisemitismo. Tutti i 3.000 biglietti (che non erano economici) sono stati venduti con largo anticipo e la sala concerti della città era completamente piena – e tempestosa. Dubito che si sarebbero potuti vendere 30 biglietti per un dibattito simile nell’Auditorium Bronfman di Tel Aviv. Ma l’interesse a discutere di questioni di principio, che esiste all’estero ed è inesistente in Israele, non è l’unico motivo per presentarsi lì.” E qui viene la ragione principale, esistenziale per Israele.

Spiega Levy: “All’estero c’è l’arena che in larga misura determinerà il futuro di Israele. Non dobbiamo abbandonarla alla destra. Nessuno si lamenta quando i propagandisti della destra fanno confusione nel mondo attraverso l’establishment sionista, i macher, le organizzazioni ebraiche e le ambasciate israeliane – una grande lobby con molti soldi. Seminano allarme con false affermazioni secondo cui qualsiasi critica a Israele, all’occupazione o all’apartheid israeliana è antisemitismo, e così mettono a tacere mezzo mondo con la paura di essere sospettati di antisemitismo. Questa pratica manipolatoria produce risultati a breve termine. A lungo termine, si ritorcerà contro Israele e gli ebrei, a causa dei quali la libertà di parola è stata soppressa. Un rapporto investigativo del Guardian ha rivelato ancora una volta i metodi utilizzati dal Ministero della Diaspora e promossi dal Ministero degli Affari Strategici per affrontare ciò che sta accadendo negli Stati Uniti e nei campus. Metodi come questi bastano a far puzzare Israele. Alla destra dei coloni e all’establishment sionista ed ebraico tutto è permesso; far sentire una voce diversa da quella di Israele è tradimento”.

Parola pesante, tradimento, quella che, per rinfrescare la memoria ai paladini di Netanyahu di casa nostra, fu utilizzata dalla destra israeliana per combattere Yitzhak Rabin, tacciato di essere un “traditore” per aver sottoscritto gli accordi di Washington con l’Olp di Yasser Arafat. Come finì, è storia. Rabin fu assassinato da un giovane estremista di destra, Yigal Amir, che trova ancora oggi adepti tra le fila di partiti che fanno parte dell’attuale governo d’Israele. E l’uomo che arringava la folla odiante che innalzava cartelli con l’immagine di Rabin in divisa da SS o con la kefiah, era lo stesso uomo che oggi è a capo del governo: Benjamin “Bibi” Netanyahu. La realtà è un’altra. La dice bene Levy: “Il danno più fatale alla posizione di Israele è causato dalle sue politiche. Non è ancora stata rilasciata l’intervista o il discorso di un odiatore di Israele che causerà a Israele un danno pari a quello delle immagini degli orrori a Gaza. Un bambino in preda alle convulsioni e morente sul pavimento insanguinato dell’ospedale di Rantisi è più distruttivo di mille articoli. Nessuna campagna di propaganda governativa – che secondo il Guardian è nota come “Concert” o “Kela Shlomo” – può sradicare il disgusto (giustificato) che Israele provoca con il suo comportamento nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Nessun articolo ha causato tanti danni quanto la foto del palestinese ferito legato al tetto del cofano rovente di una jeep dell’esercito israeliano a Jenin. E anche coloro che si preoccupano solo dell’immagine di Israele all’estero, e non anche della sua essenza e incarnazione morale, devono volere un cambiamento nella politica. La spiegazione secondo cui non c’è più distinzione tra ciò che si dice qui e ciò che si dice là, perché la tecnologia trasmette tutto, è ridicola. L’importante è il sentimento antidemocratico di chi cerca di mettere a tacere un’opinione, articolata in un luogo o in un altro, e l’obbligo di raccogliere consensi “per il bene” dello Stato. Indipendentemente dall’utilità o dal danno causato a Israele, tutti gli individui hanno il diritto di esprimere le proprie opinioni ovunque e in qualsiasi momento. Basta con l’anarchico, primitivo e antidemocratico “non dirlo ai gentili”. E chi determinerà cosa è bene per Israele? La destra? Il governo? I coloni? E quale Israele dovrebbe essere servito? Quando mercoledì alcuni esponenti pubblici israeliani hanno pubblicato sul New York Times un appello a non invitare Netanyahu al Congresso, non è solo un loro diritto, è un loro dovere. Chiunque, come loro, ritenga che il Primo ministro Benjamin Netanyahu stia danneggiando irreversibilmente lo Stato deve dirlo, ovunque”. Per questo occorre insistere, informare, andare contro la narrazione di Stato e una comunicazione militarizzata.

Conclude Levy: “Haaretz, che viene letto all’estero nella sua edizione inglese non meno che in Israele, non è solo una fonte di informazione, ma anche una fonte di speranza che non tutto Israele è costituito dai coloni, dal Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, dal Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e da Netanyahu. Questo è il miglior patrocinio pubblico che Israele possa sperare in questo momento”. Ed è ciò che, nel suo pubblico, L’Unità cerca di fare: dare voce all’Israele che non si arrende alla deriva fondamentalista, colonizzatrice, bellicista di una destra che assieme alla pace, sta attentando al bene più prezioso, quello che avevano a cuore i padri fondatori dello Stato d’Israele: la democrazia, essenza dell’identità ebraica. Quello che ha cuore la moltitudine d’israeliani che hanno gremito ieri sera l’Arena Menora Mivtachim di Tel Aviv. Una manifestazione grandiosa. Per dimensioni, per determinazione . I panni sporchi si lavano anche così.

Post Scriputm. In rete circola un breve video del ministro della Sicurezza nazionale d’Israele, il fascista Itamar Ben-Gvir che, senza giri di parole, afferma che il suo proposito sarebbe di giustiziare tutti i prigionieri palestinesi. A oggi sono 9mila i prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliani. In cella al momento si contano 70 donne, 200 bambini, 3.484 detenuti amministrativi (senza accise né processo), 50 giornalisti, oltre cento studenti universitari. Ben-Gvir non fa differenze. Per lui andrebbero giustiziati. Tutti. Si dirà, come se fosse una scusante: Ben-Gvir non rappresenta la componente maggioritaria del governo. Ne fa comunque parte, e con un ruolo preminente. Ma questa considerazione non è sufficiente a spiegare cos’è oggi la destra israeliana. Si guardi a chi dovrebbe rappresentare l’anima moderata, pragmatica, ragionevole. Il nome più gettonato è il ministro della Difesa Yoav Gallant (Likud, il partito di Netanyahu). Ebbene, il “moderato” Gallant così si è espresso alcuni giorni fa: “Israele non vuole la guerra ma non esiterà a spianare e riportare il Libano “all’età della pietra” se gli Hezbollah, alleati dell’Iran, non finiranno di attaccare”. All’età della pietra.

2 Luglio 2024

Condividi l'articolo