L'appello del Ciolle

Che fine sta facendo la democrazia italiana, ferita negli anni ’90 e finita dal Porcellum

L’Italia rincorre un’infinita transizione dagli anni 90. Ma fu il Porcellum il maglio che la ferì a morte, sfregiando il principio di rappresentanza

Editoriali - di Roberto Morassut - 5 Luglio 2024

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Che fine sta facendo la democrazia italiana, ferita negli anni ’90 e finita dal Porcellum

I rischi di “dittatura della maggioranza” e di “diseducazione alla democrazia” sono due grandi temi classici del pensiero filosofico e politico della filosofia occidentale da Aristotele fino ai tempi attuali. La democrazia è un sistema fragile che si basa su un complesso sistema di equilibri tra l’esercizio del potere ed il suo controllo, su un principio di intermediazione della rappresentanza che garantisce, per un verso i diritti delle minoranze che partecipano alla vita della Repubblica, per altro gli interessi delle grandi masse dallo strapotere di singoli. La rappresentanza dei corpi intermedi altro non è infatti che lo strumento aggregante di migliaia o milioni di individui i quali, presi singolarmente, nulla conterebbero di fronte al sopruso di una ristretta oligarchia che si impossessa delle leve del comando di una comunità.

Partendo da Aristotele, passando per Polibio, Machiavelli, Benjamin Constant e fino a Tocqueville questo è stato sempre il nodo ricorrente della riflessione sulla democrazia, sulla sua forza e sui suoi limiti. Tocqueville metteva in guardia dai rischi di “dittatura della maggioranza”, Polibio dal rischio della “oclocrazia” – la dittatura delle masse o degli ignoranti – mentre Aristotele e Constant batterono molto sulla necessità di rafforzare un “punto di mezzo”, un just “mieleu” come base della democrazia, concetto che in entrambi i casi, anche se in tempi e forme diverse, richiamava la necessità di avere una borghesia o un aggregato di ceti intermedi tra ricchissimi e poverissimi, che agisse da ammortizzatore delle scosse dell’edificio sociale. “In medio stat virtus” sosteneva Aristotele come criterio universale morale, politico oltre che fisico.

Il presidente della Repubblica è tornato ieri su questi temi di fondo nel suo discorso alla Settimana sociale dei Cattolici; un discorso sorretto da una fortissima riflessione di fondo sulla crisi delle democrazie in Occidente e nel mondo in questo passaggio storico ma con inevitabili richiami all’attualità politica italiana. Per come è stato percepito dalla maggioranza degli osservatori.
Quale democrazia stiamo costruendo in Italia? Come stiamo adeguando la Repubblica nata dalla Resistenza e la Costituzione ai grandi cambiamenti di questa epoca? Sono le domande che sorgono dalle parole del Presidente che con la consueta correttezza istituzionale ma anche con inconfondibile adesione ai principi della Costituzione ha proposto la stringente urgenza di affrontare alcune questioni. L’Italia rincorre una infinita transizione repubblicana dall’inizio degli anni Novanta sia sulla materia costituzionale che su quella della rappresentanza elettorale. Una transizione che non si è mai conclusa in un approdo organico ma che è andata avanti attraverso cambiamenti parziali, randomici, contraddittori che hanno profondamente distorto le forme della rappresentanza, il ruolo dei partiti, la centralità del Parlamento, la forza degli esecutivi, la nitidezza del dettato costituzionale, l’organizzazione dello stato nel territorio attraverso gli enti locali.

Tutte conseguenze o stati di fatto che non poco contribuiscono oggi alla disaffezione verso la politica e le istituzioni, alla diserzione elettorale e che si saldano ai processi storici che soffiano nella stessa direzione in tutte le democrazie liberali e occidentali. Insomma, non facciamo più eccezione e siamo diventati come gli altri: una democrazia a bassa intensità, mentre fino a non poco tempo fa ci distinguevamo ancora. Se dovessi individuare un punto o una falla iniziale di questo diluvio lo cercherei nella legge elettorale del 2006: la legge Porcellum, ideata e così battezzata, da un signore di Bergamo che, a dispetto della sua città che dette a Garibaldi quasi due terzi dei suoi “Mille”, girando in scarpe da ginnastica per il Parlamento italiano, ha demolito per primo la rappresentanza dei partiti di massa in Italia e conseguentemente del Parlamento che su di essi si basa per natura. Che cosa vuoi rappresentare e che voci vuoi portare nel cuore della democrazia se la stragrande maggioranza degli eletti è da quasi 20 anni – col Rosatellum cambiò poco – selezionata dall’alto e non dal basso? Elementare Watson! Partiti più autoritari, verticali, personali, correntizzati. Gruppi meno autonomi dalle direzioni centrali dei partiti (cosa impensabile nei partiti della cosiddetta prima Repubblica).

Un Parlamento debole è un Parlamento sul quale monta l’Esecutivo appropriandosi sempre di più della funzione legislativa e riducendo quest’ultimo a un’assemblea di ratifica, ad un luogo di cerimonie e commemorazioni, ad un votificio di ordini del giorno che, oltre una certa misura, favoriscono la demagogia e la disaffezione perché innescano attese piccole e diffuse che non saranno mai soddisfatte da nessuno. È drammatico che la sinistra italiana non sia stata in grado di fermare il signore di Bergamo ma che se ne sia servita nella illusione che rafforzandosi nella “stanza dei bottoni” con delle scorciatoie elettorali potesse riformare il Paese. Con Renzi si tentò di fare una riforma costituzionale che scontava enormi limiti nelle modalità di conduzione in Parlamento e nel Paese e talmente barocca nei contenuti formali da non essere capita nel momento cruciale della consultazione referendaria. Ora la destra si è incamminata su un sentiero cieco che non porterà a nulla se non alla sua auspicabile disfatta elettorale sia sull’autonomia differenziata, sia sul premierato. La transizione continuerà a portarci verso il largo delle coste atlantiche nella speranza che un redivivo Rodrigo di Triana gridi prima o poi “Terra!”? Credo si debba prendere coscienza di alcune semplici questioni che vado elencando in brevissimo:

1. La democrazia e quindi la Costituzione si deve riformare in Parlamento con un’ampia convergenza tra forze diverse. Lo sbocco referendario non produrrebbe mai risultati di lungo respiro ma lascerebbe il Paese diviso tra fazioni e contendenti senza valori comuni. Ricordiamoci sempre il capolavoro dei Padri Costituenti che si divisero politicamente nel maggio del ’47 ma rimasero al lavoro per approvare insieme la Costituzione fino al dicembre del ’47 e grazie a quel capolavoro la Costituzione resiste “nel popolo” ancora oggi.

2. Gli interlocutori reali di un patto costituzionale in Parlamento nell’Italia di oggi sono gli eredi del patto del ‘47 – il centrosinistra – e forze di destra a-costituzionali o anticostituzionali come gli ex fascisti di Fratelli d’Italia.

3. Se gli interlocutori restano nelle loro trincee non ci sarà mai un nuovo patto costituzionale di cui, però, il Paese ha bisogno. Servono perciò atti forti di uscita dalle trincee e di incontro sulla linea intermedia.

4. Il primo passo spetta a Giorgia Meloni che deve dichiarare apertamente la sua adesione ai principi dell’attuale Costituzione, prendere le distanze dal fascismo con un atto forte e definitivo – magari recandosi a Salò sotto Villa Feltrinelli e dire che la destra italiana ripudia il fascismo in modo definitivo e irreversibile.

5. Solo a queste condizioni la sinistra democratica e costituzionale e le forze democratiche storiche e più nuove possono prendere in considerazione la possibilità di liberarsi del complesso di una democrazia che sia esclusivamente parlamentare o non anche di tipo semipresidenziale. Liberarsi, insomma dell’idea, del no all’uomo solo al comando che è più un incubo che una realtà ed aprirsi ad un disegno che contempli decisione e controllo nel funzionamento delle istituzioni repubblicane.

Non vedo altre possibili strade di questa – estremamente complessa – per creare le basi di una nuova era che non sia segnata da un lento consumarsi verso un esito che potrebbe essere drammatico e di disgregazione nei fatti, cosa che è già presente. Ho solo una domanda che resta in me irrisolta sul piano prettamente storico. Può esistere, in Italia, una destra popolare che non sia “semi-fascista” o che comunque non guardi a quella storia come alla sua irrinunciabile epica? È qui che si gioca la capacità egemonica di una sinistra popolare che in Italia e in Europa riconquisti un primato tra le masse e le generazioni più giovani e soffi sulle vele di valori e di un’epica fatti di solidarietà, sostenibilità, diritti, eguaglianza e liberta. Vedo sventolare qualche foglia e vuol dire che il vento c’è. Grazie, comunque, Presidente per averci riportato a pensare che nei tempi difficili bisogna educare ed educarci ancora di più alla democrazia. Come sosteneva il grande pensiero politico americano degli anni 80 e 90, figlio delle grandi lotte di libertà e di liberazione degli anni e dei decenni precedenti. Come sosteneva Antonio Gramsci, nei suoi Quaderni, quando, isolato da molti compagni anche in carcere, indicò la strada della democrazia come quella obbligata per la rivoluzione e il cambiamento sociale.

5 Luglio 2024

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