Quando è emersa la storia degli stupri del patrigno di Andrea Robin Skinner, figlia della scrittrice Premio Nobel per la letteratura Alice Munro, morta lo scorso marzo, la scrittrice Joyce Carol Oates ha auspicato che la vicenda diventasse un libro. Un libro che per certi versi già esiste e che non ha avuto bisogno della cronaca per farsi pubblicità. Triste tigre lo ha scritto Neige Sinno, francese, tradotto in Italia per Neri Pozza da Luciana Cisbani, in cui l’autrice ha ripercorso la sua storia di vittima di abusi, quando era solo una bambina, da parte del patrigno. È diventato un caso letterario in Francia, ha fatto incetta di premi, ha vinto anche lo Strega Europeo.
La tigre arriva dalla Tiger, tiger dei Canti dell’innocenza e dell’esperienza di William Blake. “Lui che fece Agnello e te?”. Protagonista del libro non è il cattivo ma lei, la scrittrice è l’eroina. Che a lungo si era interrogata sullo scrivere o meno questo libro. Ha intrapreso un corpo a corpo con altri autori. Vladimir Nabokov, Jane Austen, Annie Ernaux,Antonio Ortuno, Emmanuel Carrère, Margaux Fragoso, Goliarda Sapienza. È l’orma del percorso che l’ha portata a scrivere.
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Lei non voleva chiamarlo papà. Era una specie di demiurgo, mosso paradossalmente da una forte esigenza morale. “Diceva di amarmi. Diceva che era per poter esprimere quell’amore che mi faceva quello che mi faceva, diceva che il suo desiderio più grande era che io ricambiassi il suo amore. Diceva che se aveva cominciato ad avvicinarsi a me in quel modo, a toccarmi, ad accarezzarmi, è perché aveva bisogno di un contatto più stretto con me, perché io mi rifiutavo di essere dolce con lui, perché non gli dicevo che lo amavo. Dopodiché mi puniva con atti sessuali per l’indifferenza che gli dimostravo”.
Alcuni ricercatori parlano del “fattore D”, il fattore Dark che spinge alcuni criminali a “massimizzare la propria utilità individuale”, a mettersi sopra tutto e tutti. Lo stupro come una manifestazione di potere. Lui alla fine ha confessato ed è stato condannato. Sinno non ha fatto sconti nemmeno a se stessa e alla vita che si può decidere di vivere, alle avventure e alle disavventure che possono accadere. Non è una questione di resilienza o epifania, di redenzione o happy ending. Non è la retorica del sopravvissuto o una maniera per svuotarsi del dolore come tirando lo sciacquone, quanto più crearsi un ideale di realtà che non confini la persona alla sola violenza.
Allo stesso tempo l’autrice riconosce certe condizioni: una povertà piena di dignità e speranza, ai margini del paese, i paesani che guardavano quella famiglia stile hippie e scuotevano la testa. “È vero che c’era in me qualcosa di vulnerabile, una situazione di solitudine estrema, di alienazione, che mi predisponeva a essere una vittima. Sapevo che se lui fosse stato arrestato non avremmo più avuto di che vivere, saremmo finiti nell’indigenza, quattro bambini e uno stipendio di cameriera”. E il senso di colpa di dare alla madre un altro enorme dolore. Si sentiva in trappola.
Anche qui è il senso di questo libro: una testimonianza che non lasci le vittime a un isolamento che finisce per ri-vittimizzare le stesse. Sabine Schultz, vicedirettrice editoriale di Neri Pozza ed editor della narrativa straniera, ha spiegato come l’autrice si sia misurata “con i confini dell’umano e del male e con i limiti del linguaggio, che sfida e doma, schivando il vittimismo. Ci racconta di un mondo in cui non si riesce a ignorare il male. È un libro da cui non si torna indietro”. Sinno ha raccontato che quando se n’è andata di casa e raccontava la sua storia, la maggior parte delle volte riceveva un racconto analogo in risposta.