L'intervista
Intervista a Marcello Flores: “L’iper-protezionismo di Trump è un pericolo per l’America, altro che folklore”
«Al di là della benda sull’orecchio esibita come ferita di guerra, quello di Milwaukee è stato un discorso politico inquietante. Il tycoon ha accentuato ancora di più la sua visione di “America first”»
Esteri - di Umberto De Giovannangeli
L’America dei fondamentalismi fa scuola. Da “sono qui per volontà di Dio”, riecheggiato alla Convention repubblicana, a Putin che riscrive i libri di storia per studenti. Un mondo dove la percezione è diventata realtà, e la politica uno show mediatico. L’Unità ne discute con uno dei più autorevoli storici italiani: Marcello Flores. Il professor Flores ha insegnato Storia comparata e Storia dei diritti umani nell’Università di Siena, dove ha diretto anche il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies.
Professor Flores, a Milwaukee, più che una Convention politica è andata in scena una rappresentazione mediatica con il presidente in pectore “miracolato da Dio”, la star del wrestling che si strappa le vesti per il suo eroe, e il giovane vice, incarnazione del “sogno americano”, che sembra uscito da una soap opera. Fuori da polemiche di parte, cosa racconta tutto ciò? Un segno dei tempi?
Racconta che nella Storia il caso a volte conta tantissimo. Trump si è salvato, è stato detto, per uno-due centimetri, così come John F. Kennedy non si era salvato per uno-due centimetri. In entrambi i casi, quei pochi centimetri avrebbero modificato profondamente la storia, passata, per quel che riguarda il dopo Kennedy, futura, vedremo in che modo. Ciò che non è casuale e che la politica è ridiventata elemento di una sorta di religione permeata da un insieme di caratteri pagano-primitivi, di superstizioni e simbologie che hanno il sopravvento sui contenuti. E questo è molto grave. Perché è vero che la Convention repubblicana è stata quello che lei ha sintetizzato e su cui i media si sono concentrati, ma non è stata solo uno show, più o meno riuscito. Perché, al di là della benda all’orecchio esibita come ferita di guerra e riferimenti da “unto del Signore”, quello di Trump è stato un discorso politico per molti aspetti inquietante.
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Vale a dire?
Il discorso iper-protezionista che lui ha fatto è estremamente pericoloso per la stessa America e per il suo futuro economico. Nonostante ciò, quel discorso è passato come qualcosa di normale, di inevitabile, quasi folklorico mentre a me pare che Trump abbia accentuato ancora di più di quanto aveva fatto in passato la sua visione di “America first”. Più aggressiva, ideologizzata, vendicativa. Se fosse realizzata significherebbe voler cambiare le regole della globalizzazione in modo unilaterale, cosa non solo impossibile ma che rischia di creare contraccolpi notevoli per tutti quanti.
Nel suo discorso Trump ha parlato, tra gli applausi di una folla adorante, della “più grande deportazione nella storia del nostro Paese” riferendosi ai migranti, evocando un’America in guerra contro un esercito di disperati.
Il caso di Trump e di quella parte dell’America che lo ha elevato ad Eroe e non più “solo” a Candidato, sono l’estremizzazione di un fenomeno più generale dei nostri tempi e sul quale dovremmo seriamente interrogarci.
Di cosa si tratta, professor Flores?
Delle ragioni per le quali la politica abbia elevato all’ennesima potenza questo aspetto, che non le è mai stato estraneo, di non razionalità, Parliamo dell’America e delle elezioni presidenziali, ma il discorso andrebbe allargato ad altri Paesi, ad altri leader.
Ad esempio?
Pensiamo alle due guerre in corso. Putin e Netanyahu si muovono non sulla base degli interessi dei loro Paesi, ma contro di essi. Agiscono per altri motivi che sono, insieme, simbolici, di vanità personale, di orgoglio, di cose che non dovrebbero appartenere alla politica e che invece sono ridiventate una parte integrante e fondamentale di essa.
Tutto questo non è anche il segno del decadimento dell’Occidente per come si era inteso, cioè il luogo delle democrazie liberali e anche di una certa razionalità della politica?
Questo approccio non mi ha mai convinto. E non solo perché è più di un secolo che certi discorsi vengono fatti e continuamente ripetuti, ma soprattutto perché oggi viviamo in una dimensione internazionalizzata, al di là della globalizzazione, soprattutto economica e tecnologica, in cui la parola democrazia andrebbe coniugata al plurale. Nel senso che oggi abbiamo un gran numero di democrazie molto diverse tra loro, che stanno in varie parti del mondo, e in tutte, sia pure in modalità diverse, riscontriamo il peso dei simboli, dell’irrazionalità, del richiamo a valori ancestrali, identitari, per mobilitare le masse sul terreno della politica. Qualcosa di più ampio che non riguarda soltanto l’Occidente ma che rinveste le forme della comunicazione, le tecnologie utilizzate per attrarre consenso, e investe le culture stesse. In questa chiave, non v’è dubbio che anche la cultura occidentale dovrebbe avviare una seria, profonda, non assolvente, autocritica. Mi lasci aggiungere che anche quando parliamo di Occidente, sarebbe opportuno evitare generalizzazioni semplicistiche e descrizioni superficiali. L’Occidente ha tante cose contraddittorie al proprio interno. Parlare di Occidente in generale non tiene conto del fatto che il problema oggi è quello di ripristinare, con vecchie e nuove regole, un ordine internazionale. Una cosa estremamente difficile e che oggi è ostacolata soprattutto dalle due guerre in corso; guerre, quella in Ucraina e quella in Medio Oriente, che sono la risultante, non solo geopolitica, di situazioni diverse. Nella guerra in Ucraina, abbiamo la Russia, sostenuta dalla Cina, mentre in Medio Oriente abbiamo Israele che ha dietro di sé come alleati, per quanto critici in questa fase, gli Stati Uniti. Mi auguro che l’Europa, finita la fase elettorale, possa provare, che ci riesca è tutto da vedere ma almeno a provare, di essere un punto di riferimento nel tentativo di ricostruire un ordine internazionale.
In questo auspicato ordine internazionale dovrebbe far parte il rispetto dei diritti umani, dei popoli, tema a cui lei ha dedicato libri di straordinario rilievo e attualità.
Sarebbe cosa buona e giusta, ma sulla strada per la sua realizzazione gli ostacoli sono tanti e molto ardui da superare. Sul rispetto dei diritti umani, il mondo, anche quello più avanzato in questo campo, è andato indietro nell’ultimo decennio. Abbiamo assistito ad una pericolosa “politica del gambero”. Un nuovo ordine internazionale, per essere davvero “nuovo”, dovrebbe avere tra i suoi pilastri il rispetto dei diritti umani. Quei diritti che a parole sono riconosciuti dalla quasi totalità della comunità internazionale e dagli Stati che fanno parte delle Nazioni Unite. Anche se poi, nei fatti, quei diritti vengono negati, repressi e non solo nei paesi retti da regimi autoritari. A calpestarli sono anche le democrazie, sia pure in modo minore. Importante, ad esempio, sarebbe ripristinare la totale proibizione di ogni guerra di aggressione, di violenza a Stati vicini, e la possibilità, laddove ci sono guerre civili, quelle più diffuse in questa fase storica, di interventi più incisivi delle Nazioni Unite, sulla base di esperienze passate che hanno dato esiti positivi. La nuova fase può nascere solo se si darà soluzione ai due conflitti in corso. E la loro soluzione, a mio avviso, può venire soltanto con la messa all’angolo da una parte di Putin e dall’altra di Netanyahu.
Le parole hanno un peso enorme. Un mondo in cui non esistono più avversari ma soltanto nemici, non è un mondo che già per questo si condanna al disordine e all’ingovernabilità?
Questo è vero. Il problema è anche ricostruire una cultura del rispetto, della tolleranza, della differenza anche forte di posizioni, ma all’interno di una logica che non sia quella del nemico, della demonizzazione reciproca, che a volte viene utilizzata come pretesto per aprire crisi e muovere guerre. Un discorso che chiama in causa anche la comunicazione, che sulle contrapposizioni forzate, sugli insulti più infamanti, ci vive. Mi riferisco soprattutto ai social network.
Un termine molto in voga nel linguaggio della politica, e non solo, è quello di fondamentalismo che quasi sempre viene associato all’islam. Non crede, professor Flores, che sarebbe tempo di parlarne, scriverne, ragionarci su al plurale, perché i fondamentalismi sono diversi, c’è quello, molto forte negli Usa, cristiano, e quello ebraico in Israele…
Sono pienamente d’accordo con questa sottolineatura. E aggiungerei alla lista il fondamentalismo antiscientifico. Fondamentalismi per cui ognuno può credere quello che vuole rispetto ai vaccini, alla terra che gira attorno al sole o alla sua sfericità ecc.
Per restare su una metafora sanitaria, esiste un “vaccino” contro il virus dei fondamentalismi?
Continuo a pensare che un tema centrale e, ahinoi, dimenticato da tutti, è quello dell’educazione. Da una parte vediamo Putin che riscrive i libri di storia obbligatori per tutti gli ordini scolastici della Russia, che cambia totalmente quello che si sa e che è avvenuto in quel Paese, dall’altra vediamo molti stati americani stabilire che bisogna cancellare Darwin e il suo insegnamento o insegnarlo insieme al creazionismo perché devono essere messi alla pari. Dobbiamo raccontare ai più giovani ciò che accade e perché, ma questo non avviene. La storia ha il compito di comprendere e spiegare ma non di dare giudizi, o emettere sentenze, per quello ci sono i tribunali. Quello dell’educazione è diventato sempre più un terreno di scontro ma che deve diventare il centro di qualsiasi progetto nuovo di ricostruzione di una cultura di dialogo, di civiltà. Una sfida che non può essere elusa. Ne va del futuro delle giovani generazioni e della democrazia stessa, come sistema di principi condivisi.