25 luglio 1943, la fine del regime fascista
Come è finito il fascismo: storia della caduta del Duce, dalla mozione Grandi all’arresto
Mussolini confidava ancora di rovesciare le sorti della guerra. Aveva incontrato Hitler ma l’esito era stato disastroso. Pochi giorni dopo il Gran Consiglio lo depone. E il re lo fa ammanettare
Storie - di David Romoli
La caduta del fascismo fu tutt’altro che gloriosa. La Resistenza ebbe il compito di riscattare moralmente, per quanto possibile, non solo il ventennio ma anche la sua fine, segnata e decretata da manovre torbide e congiure parallele, manovre di palazzo, e dal suo tragico epilogo, la rotta dell’8 settembre. In quel 25 luglio 1943 la sorte del regime era già segnata almeno da 15 giorni, dal fatale sbarco in Sicilia degli Alleati. Non fu una passeggiata, come è poi stato favoleggiato, ma a resistere, e strenuamente, furono i tedeschi, non gli italiani. La sentenza finale arrivò nove giorni dopo. Mussolini era a San Fermo, frazione di Belluno, nella villa del senatore Achille Gaggia per incontrare Hitler. L’incontro fu disastroso. Hitler concionò per ore senza lasciare al duce, nei confronti del quale pure provava rispetto e affetto, la possibilità di dire una sola parola.
Mussolini, del resto, non avrebbe saputo cosa dire. Le pressioni dell’esercito per una pace separata erano continue, martellanti. Il capo di stato maggiore generale Ambrosio, forse il più deciso di tutti, aveva dato al duce anche una deadline precisa: sganciarsi dalla guerra e dall’alleanza con la Germania entro 15 giorni. Ma il duce esitava, era diviso e indeciso, cambiava idea a ripetizione. Nella notte del Gran Consiglio si sarebbe sbilanciato a favore della prosecuzione della guerra a fianco di Hitler: “Pacta sunt servanda”. È possibile che credesse davvero a quel che Hitler gli aveva assicurato nell’incontro di San Fermo, passato alla storia, erroneamente, come “di Feltre”: la disponibilità di due nuove armi che, nel successivo inverno, avrebbero capovolto le sorti del conflitto e decretato la vittoria dell’Asse. Di certo, quando alla vigilia del Gran Consiglio incontrò Dino Grandi, autore dell’odg che avrebbe segnato la caduta del duce nella notte tra il 24 e il 25 luglio, sostenne proprio che quelle armi avrebbero reso certa la vittoria.
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L’incontro fallimentare si concluse in anticipo, quando arrivò la notizia del bombardamento di Roma, il 19 luglio. Le bombe su Roma uccisero 3mila persone e ne ferirono 11mila. Furono la pietra tombale su un regime già agonizzante. La folla acclamò il papa, recatosi subito nel quartiere colpito di san Lorenzo, ma accolse a sassate l’automobile del sovrano, consigliandogli una prudente retromarcia. Le manovre per il colpo di Stato per destituire il capo del governo erano a quel punto già molto avanzate, gli stessi tedeschi ne erano al corrente grazie alle informazioni arrivate al Reichsfuhrer delle SS Himmler. Quella tela provava a tesserla, con grandissimo coraggio, Maria Josè del Belgio, moglie dell’erede al trono Umberto, sin dal 1942, antifascista vera. Il maresciallo Pietro Badoglio, futuro capo del governo in sostituzione di Mussolini, aveva negato la sua disponibilità: aspettava l’ordine del sovrano. Il re però non era convinto. Una lettera del ministro degli Esteri inglese del maggio 1942 lo descrive “invecchiato, privo di iniziativa, terrorizzato”. Si decise solo dopo la sconfitta nel Nord Africa, in maggio, e anche a quel punto, il 4 giugno, disse a Grandi che “da monarca costituzionale” si sarebbe mosso solo dopo un pronunciamento del Parlamento o del Gran Consiglio del fascismo. La mozione Grandi, che sollevava il duce dalla guida delle forze armate rimettendola nelle mani di Vittorio Emanuele, gli fornì quell’appiglio. Ma il colpo di Stato, a quel punto, ci sarebbe stato comunque e la scelta sul successore di Mussolini, anche su spinta dei generali, si era già orientata su Badoglio. Ma la congiura del re e la manovra di Grandi, allora presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, come era stata ribattezatta la Camera, procedettero parallelamente e il sovrano non ebbe mai alcuna intenzione di affidarsi ai gerarchi, con o senza Mussolini.
Grandi era certamente consapevole delle conseguenze che avrebbe avuto l’approvazione del suo odg, del cui contenuto aveva peraltro informato il duce. Il Gran Consiglio, formalmente la massima istituzione del regime, non si riuniva in realtà dal 1939. Era un guscio vuoto. A insistere perché fosse convocato di nuovo non furono i gerarchi che miravano alla spallata ma il fronte opposto, quello più filonazista guidato dal duro Roberto Farinacci. Il pronunciamento comunque fu corale e il duce cedette. I 28 componenti del consiglio si sedettero intorno al tavolo a forma di U nella sala del pappagallo di palazzo Venezia nel pomeriggio del 24 luglio. Erano tutti in divisa, con sahariana nera. Molti prevedevano il peggio ed erano arrivati armati, Grandi con due bombe in tasca. I moschettieri del duce, la guardia del corpo di Mussolini, li avevano accolti minacciosamente nel cortile del palazzo ma, poi, contravvenendo all’uso, erano rimasti fuori dalla sala della riunione, che proseguì per ore. Lo stesso duce decise che non sarebbe stata verbalizzata: quel che ne sappiamo proviene dalla memoria dei presenti, certo non disinteressata. Esiste, rintracciato una decina d’anni fa, un verbale manoscritto che registrerebbe una riunione molto tesa e litigiosa ma l’autenticità è ancora dubbia. Quel che è certo è che Mussolini avrebbe potuto evitare senza alcuno sforzo l’esito del Gran Consiglio.
Se avesse tratto le conclusioni e sciolto la riunione, come di solito avveniva, nessuno avrebbe avuto il coraggio di opporsi. Se avesse chiesto di mettere ai voti per primo l’odg del segretario del partito Carlo Sforza, quel documento sarebbe stato approvato e avrebbe reso inutili ulteriori votazioni. Non fece né l’una né l’altra cosa. A tarda notte fu messo ai voti per primo l’odg Grandi. Fu approvato con 19 voti a favore, 8 contrari e un astenuto. La riunione fu sciolta poco prima delle 3 di notte. La stragrande maggioranza dei gerarchi che votarono per l’odg non si resero conto dell’impatto che avrebbe avuto. Quelli che ne erano consapevoli, come lo stesso Grandi, Bottai, Federzoni e Ciano, non immaginavano che il re li avrebbe messi subito da parte. Eppure Mussolini non era rassegnato, nonostante fosse provato sia dall’ulcera che non gli dava tregua che dalla consapevolezza della sconfitta. Probabilmente però riteneva di avere ancora dalla sua parte il re, che aveva incontrato tre giorni prima, il 22 luglio, e considerava i gerarchi inoffensivi. Sua moglie, Rachele la contadina, aveva la vista più lunga. Insistette perché il marito, nel pomeriggio del 25 luglio non si recasse dal re, a villa Savoia. Mussolini non le diede retta. Il colloquio, nel quale il sovrano informò Mussolini di averlo sostituito come capo del governo, durò venti minuti. Quando uscì il duce trovò ad attenderlo in cortile una cinquantina di carabinieri e un’ambulanza dove fu caricato il duce in stato d’arresto, per essere trasportato nella caserma Podgora, a Trastevere e poi nella scuola allievi carabinieri in Prati. La notizia delle “dimissioni” del dittatore fu data per radio solo alle 22.45. La folla sciamò per le strade. Abbattè festante i busti dell’ex uomo della Provvidenza e i simboli del regime. Anche se i comunicati del re e di Badoglio assicuravano che la guerra continuava, il popolo soprattutto a Roma immaginava che la pace fosse a un passo. Invece dietro l’angolo della storia c’erano la catastrofe dell’8 settembre, l’occupazione nazista di oltre mezza Italia, la guerra civile.