X

Crollo alle Vele di Scampia, i gridi finiti nella polvere

Vele Scampia 22466831_large

Vele Scampia 22466831_large

Di un’uccisione sul posto di lavoro non risalgo all’intero sistema capitalistico. Non ingrandirei così facendo, lo diminuirei invece a effetto collaterale. Involontariamente lo giustificherei. Del micidiale crollo di un ballatoio alla periferia di Napoli se ne commenta in toni esclamativi perché l’area si chiama Scampia, denominazione d’origine certificata da innumerevoli precedenti. L’edificio ha in più l’infelice nome di Vele, come se i suoi inquilini fossero velisti.

I crolli strutturali, se non per bruschi scuotimenti sismici, avvengono con segni di preavviso. Cemento risparmiato, tondini di ferro arrugginiti in bella vista e intanto il caldo di giorni equatoriali che fanno uscire dai muri per un refolo d’aria. Si sta da inquilini d’azzardo, sapendo delle incurie e incalliti a sopportarle. Mi fermo qua, non risalgo alle grandi cause, per non far torto a chi si è esposto ai crolli per la boccata d’aria.

Condividevano un’ora di canicola, un modo per essere comunità, non singoli asfissiati. C’è una difficoltà respiratoria nella vita civile dell’Italia di oggi. La cronaca racconti queste vite crollate, tradite, le ferite e i feriti, i loro nomi e i referti medici. Contano le lesioni e gli spaventi, sia capace il cronista di trasmettere i gridi finiti nella polvere. Lasci stare l’arredo dei commenti come questo mio, richiesto, e già per questo estraneo e inadeguato.