Se c’è un giornalista e scrittore che conosce ogni sfaccettatura del “pianeta Usa”, questi è Furio Colombo. Negli Stati Uniti è stato corrispondente de La Stampa e di La Repubblica. Ha scritto per il New York Times e la New York Review of Books. È stato presidente della Fiat Usa, professore di giornalismo alla Columbia University, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York. Nella sua ricca produzione saggistica, sull’America ricordiamo Trump power (Paper First); Com’è cambiata la storia. L’America di Kennedy (Baldini+Castoldi); La sconfitta dell’America (Alagno); America e libertà. Da Alexis de Tocqueville a George W. Bush (Dalai editore); Il Dio d’America. Religione e politica in USA (Claudiana); La città profonda. Saggi immaginari su New York (Feltrinelli).
Che America è quella che a novembre eleggerà il 47mo presidente?
Certo non è l’America che abbiamo conosciuto in passato. Non è l’America di cui abbiamo detto fin qui sia le cose polemiche sia quelle lodevoli. È un’America non chiara, perché sembra non conoscere se stessa, sembra non sapere essa stessa cosa dovrebbe fare e come farlo per affrontare questo momento difficile.
Il “trumpismo” sta corrodendo la democrazia americana?
È difficile dirlo. Speriamo che non accada. Non direi che è probabile, direi che è possibile. La situazione è difficilissima e complicatissima. Quello che sta accadendo è un distacco dell’America dai suoi valori, dai suoi principi, dalla sua capacità di autoregolarsi e autodeterminarsi. Siamo di fronte ad una confusione morale e politica molto profonda e molto grave.
Una confusione che ha radici profonde e non legate soltanto agli ultimi anni.
Che questa crisi di sé venga da lontano è indubbio, ma è altrettanto vero che si è aggravata e di molto negli ultimi anni. L’America ha raggiunto una situazione di contraddizione con se stessa che non aveva mai raggiunto prima. Quello che sta accadendo è nuovo. E questo nuovo, purtroppo, è un nuovo brutto, difficile. È un nuovo che non sa regolare se stesso. L’America è in una situazione nella quale non riesce stabilire quale sia il percorso che dovrebbe seguire. Quando affermo questo, intendo dire che la maggior parte di coloro che devono votare e decidere, sembrano non sapere qual è la strada percorribile. Questa strada percorribile è come una maledizione sospesa sopra l’America, nella quale la maggior parte degli elettori, dei politici, dei leaders sembrano non sapere quale sia la strada giusta, quale sia il modo di rispondere alla sfida della storia.
In questa America così dilaniata, chi è stato Joe Biden come presidente?
Trovo che Joe Biden nella situazione stranissima e difficilissima che si è trovato ad affrontare, si sia comportato al meglio possibile. Ha cercato di tenere il Paese il più lontano dalla rovina trumpiana. Lo ha fatto con dedizione e probabilmente, date le sue condizioni fisiche, lo ha fatto con enorme difficoltà.
Qual è il bilancio della sua presidenza?
E’ tutt’ora un buon bilancio. Nel senso che ha assunto e portato avanti il suo ruolo di presidente degli Stati Uniti come difensore del Paese dalla rovina psicologica, morale e fattuale, ed è riuscito a tenere l’America in qualche modo in salvo, fino a questi giorni.
In questo accanimento nei confronti di Biden, a cui la grande stampa americana non si è sottratta, non c’è anche un segno di imbarbarimento culturale rispetto ad una idea della vecchiaia?
Certamente non è stato un capitolo di tenerezza o di rispetto o di attenzione per la persona o di riconoscimento di cosa stava valendo la sua presenza per l’America. Quindi sì, si potrebbe dire che mettendo l’accento sulla senilità impresentabile di Biden si sia andati nella direzione a cui lei faceva riferimento. L’anzianità come debolezza, perdita di lucidità, e non come esperienza, saggezza, memoria. Quel che è certo è che negli Stati Uniti sono avvenuti e stanno avvenendo dei fatti che non erano mai accaduti e che sono molto pericolosi non solo per la parte costituzionale di quel Paese, ma anche per la parte organizzativa e pratica. Il disorientamento che sembra gravare sull’America in questo momento è molto vero, molto profondo, molto forte.
Kamala Harris è la candidata giusta per sconfiggere Donald Trump?
Non esiste il candidato giusto. Perché è una disgrazia che è cascata sull’America all’improvviso. È difficilissimo improvvisare il candidato giusto. Però è un buon candidato. Con passione, intelligenza, e un buon passato. Kamala Harris ha dimostrato finora, nei suoi primi atti e discorsi dopo la rinuncia di Biden e la sua certa candidatura alla presidenza, una forza di farcela che era insospettabile in lei. Non si pensava che sarebbe stata capace di tenere. Finora c’è riuscita. Speriamo che continui a farlo.
Su cosa dovrebbe puntare, a suo avviso, con maggiore forza per conquistare gli indecisi?
Ha una strada sola: quella di essere rigorosamente anti Trump. Di essere vigorosamente contraria al ciclone politico e morale che sta travolgendo il suo Paese. Non c’è che sperare che Harris riesca tenere la posizione che ha assunto fino ad adesso senza lasciarsi spaventare dall’eccesso di problemi che sta affrontando.
Quali?
Beh, un problema gravissimo che lei ha è quello dell’aborto. Lì bisognerà vedere in che modo e con quale bravura riuscirà ad affrontare quel problema che, come si sa negli Stati Uniti, è, allo stesso tempo, profondamente politico e profondamente religioso. Deve dare ancora delle prove che stiamo aspettando che dia, augurandoci che ne sia capace e ne abbia la forza.
Un passaggio drammatico nella storia di questa campagna è stato l’attentato a Trump. Su questo lei ha avuto parole molto chiare e di grande interesse, parlando di una “singolarità” inaspettata.
La singolarità di un candidato che è stato visto, almeno da una parte dell’opinione pubblica americana, come la persona meno desiderabile e più accanitamente negativa in queste elezioni, e che si è trovato invece a recitare un ruolo che non ha scelto e che gli è stato imposto dagli accadimenti, a volte tragici, della vita, in cui appare come qualcuno capace di un gesto di grandezza. Quello che appare, in quel drammatico frangente, non è il Trump cattivo, carognesco, vendicativo, che attenta alla sicurezza e alla stabilità dell’America, ma un Trump capace, senza averlo saputo e senza averlo voluto, di compiere gesti di forza. Ma non di forza come lui forse intende, cioè la forza come imposizione della propria volontà, ma nel senso di una capacità di resistere in un momento tremendo e di farlo con una notevole dose di grandiosità che sarà ricordata come tale. Questo gli va riconosciuto anche pensando tutto il male possibile, e ce n’è tanto, di lui come politico e guida dell’America.
Con la scelta di J.D. Vance come candidato alla vicepresidenza, i Repubblicani sembrano aver voluto dare un segnale di freschezza, di rinnovamento occhieggiando al “sogno americano”: un trentanovenne che viene dalle classi popolari, che si è fatto da solo…È una scelta che l’ha sorpreso?
Nell’epoca di Trump niente sorprende, le cose accadono nel modo più pericoloso. È un po’ ridicolo dire non ci resta che la speranza, non ci resta che credere che non ce la faranno a far prevalere le pessime aspettative di Trump.
Quanto pesa in questa campagna la politica estera, in particolare il conflitto israelo-palestinese?
Direi moltissimo, con delle complicazioni che porterebbero la nostra conversazione molto lontano, troppo. Il problema è quella guerra. Il problema è il rischio enorme che grava su quella guerra, di espandersi in tutta la regione. Il problema è liberarsi di personaggi come Trump che farebbero di tutto per farla esplodere.
In campo democratico, stanno emergendo figure politiche su cui investire per il futuro?
È difficile rispondere, perché è un momento strano e aspro in cui l’America non sembra vedere il suo futuro e quindi sembra non sapere in quale direzione rivolgere la sua forza e la sua coerenza. Il problema è come non precipitare nel baratro trumpiano e se ci sarà un modo di uscirne sarà un merito immenso dell’America democratica che per ora ha solo parzialmente espresso.
Cosa direbbe a quelli che in Italia fanno un tifo sfegatato per Trump?
Io non trovo, per fortuna, questo tifo ultras per Trump. Trovo che Trump ha un’accettazione che è incomprensibile, perché è un pericolo enorme per il suo Paese e per noi.
Perché un pericolo anche per noi?
Perché è un cercatore di guerre, è un cercatore di scontro, è un cercatore di disastro, è un cercatore di dominio al di là e al di fuori di tutte le speranze di pace e di buona armonia che l’Occidente aveva formulato fino al momento dell’entrata in scena di Trump. Trump è un grave pericolo, e questo pericolo continua. Ha alimentato ogni pericolo della vita americana di questo periodo. Ha talmente sconvolto il suo modo di concepire la realtà, sia politica sia militare che organizzativa, dell’America da rappresentare un grande pericolo, un pericolo, insisto su questo, che sta aumentando.