«Ma di che ti lamenti? Hai la fortuna di avere un lavoro!», «Se non hai un’occupazione è solo colpa tua che sei troppo esigente!», «Ora devi accettare qualsiasi impiego. Non puoi aspettare quello dei tuoi sogni!» . Sono, queste, alcune delle frasi che tutti quanti noi ci siamo sentiti dire soprattutto quando eravamo giovani e cercavamo la nostra indipendenza per dare sostanza ai nostri sogni. Ma come siamo arrivati a giustificare lo sfruttamento del lavoro, trasformandolo nel “privilegio” di avere un lavoro? Quando la precarizzazione sottopagata è diventata sinonimo di flessibilità conveniente? Di questa involuzione è complice anche una certa politica, che continua a usare l’offerta di lavoro come strumento di scambio elettorale ed evita accuratamente di dare seguito a quanto previsto dall’articolo 36 della nostra Costituzione, dove si legge: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
C’è ancora da discutere? La nostra Carta costituzionale è, come sempre, chiara e inequivocabile. Per chi proprio non vuole capire, c’è scritto esattamente: “retribuzione (…) sufficiente ad assicurare (…) un’esistenza libera e dignitosa”. Insomma, c’è scritto salario minimo. La retribuzione minima oraria esiste in quasi tutti i paesi dell’Ue. Eppure, nonostante una battaglia che, avviata dal Movimento 5 stelle, vede adesso unite la maggior parte delle forze di opposizione e due dei sindacati dei lavoratori più rappresentativi, questo governo, e le forze politiche che lo compongono, si ostinano a rifiutare categoricamente l’introduzione di tale garanzia che la stessa Costituzione, 76 anni fa, prevedeva e chiedeva. E lo fanno, com’è loro abitudine, mentendo. Si dice che l’introduzione di un salario minimo legale indebolirebbe la contrattazione collettiva. Falso! Il fatto che tra i richiedenti la misura ci siano le due organizzazioni sindacali che raggruppano il numero maggiore di lavoratori del nostro paese, smentisce di per sé quell’obiezione.
Si sostiene che se, come richiesto prima di tutti dalla forza politica di cui faccio parte, venisse introdotto per legge un salario minimo di 9 euro l’ora, l’impatto per le casse dello Stato sarebbe irrilevante. Falso pure questo! Una recente stima del Centro studi e ricerche dell’Inps ha calcolato in circa 1,5 miliardi di euro di maggiori entrate fiscali. I benefici di una riforma che non sarebbe soltanto di mero contrasto alle diseguaglianze sociali e alla povertà, ma che si tradurrebbe anche in un importantissimo fattore di crescita economica. La platea dei beneficiari, infatti, sarebbe di circa 4,2 milioni di persone, per i quali la retribuzione a 9 euro l’ora fissata per legge apporterebbe in media circa 163 euro in più al mese in busta paga. Non una cifra esorbitante, certo, ma che in una realtà come quella italiana nella quale i salari medi sono rimasti invariati negli ultimi trent’anni e l’inflazione galoppante ha eroso il potere di acquisto delle famiglie del 15%, può fare la differenza tra quella “esistenza libera e dignitosa” immaginata dai padri costituenti, e la povertà.
Una differenza che, tra l’altro, riguarderebbe soprattutto i giovani sotto i 35 anni, ossia proprio quella parte di popolazione sulle cui spalle pesa la crescita, in primis demografica, del nostro paese.
Quegli stessi giovani che, soprattutto dopo la pandemia, hanno scelto di “lavorare per vivere” e non “vivere per lavorare”; perché il lavoro deve essere uno strumento per realizzare il proprio progetto personale e non una prigione che ci tiene lontani dalla famiglia, dagli amici, dagli hobby, privandoci del tempo libero. Cose che, invece, la pandemia ci ha fatto ritrovare, e che tanti non sono più disposti ad abbandonare. E non è un caso se in Italia lo scorso anno due milioni di persone hanno scelto di lasciare il proprio lavoro troppo rigido e mal retribuito per uno che meglio si conciliava con la propria vita, nella cosiddetta “great resignation”, ovvero la dimissione volontaria. Il governo Meloni ignora che c’è un mercato del lavoro in grande trasformazione, sia dal punto di vista del significato stesso del concetto di impiego che per l’avvento di nuovi strumenti tecnologici, tra i quali l’intelligenza artificiale, e non si rende conto che se lavorare oggi non permette di vivere dignitosamente, c’è qualche problema da risolvere.
Del resto lo stesso presidente Mattarella ha più volte pungolato la politica perché «tanti, troppi giovani sono costretti in lavori precari e malpagati, quando non sono confinati in periferie esistenziali». Il salario minimo, come quello che le forze di opposizione e i sindacati reclamano, favorirebbe infatti in particolar modo i giovani e le donne, dal momento sono loro la fetta più importante di lavoratori che vive al di sotto della soglia di povertà. Per tutto questo, e per molto altro, quella per l’introduzione di una retribuzione minima legale è una battaglia di civiltà sulla quale non si può e non si deve transigere. Da settimane il Movimento 5 stelle, unitamente ad altre forze politiche e sociali, ha avviato una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare che introduca tale strumento.
In questi caldissimi fine settimana d’estate, ai banchetti per raccogliere le firme ci sono anch’io, insieme a tante e tanti attivisti. Ci sono perché per me è un dovere civico, ma soprattutto perché è nelle storie di umiliazione, di sofferenza, di disagio e di vergogna che mi vengono raccontate da chi si ferma per sostenere questa nostra battaglia che trovo la motivazione più vera e più profonda al mio impegno politico. Ci sono perché quando ormai sei anni fa ho messo per la prima volta piede in Senato, ho giurato a me stessa che mi sarei battuta con tutte le mie forze perché donne e uomini del mio paese potessero ogni giorno lavorare assicurando a se stessi e alle loro famiglie quell’esistenza “libera e dignitosa” che deve essere propria della persona umana, e che rende davvero il lavoro sacro. In qualunque accezione quest’aggettivo lo si voglia intendere.
*Vicepresidente del Senato della Repubblica