Le presidenziali Usa

“Lo scambio di prigionieri è uno schiaffo a Trump, così Kamala può volare”, intervista ad Alexander Stille

«La discesa in campo di Harris ha riaperto i giochi per i dem. Ora non bisogna sbagliare la scelta del vice, che deve compensare i “punti deboli” della candidata presidente»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

3 Agosto 2024 alle 11:00

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“Lo scambio di prigionieri è uno schiaffo a Trump, così Kamala può volare”, intervista ad Alexander Stille

L’America di Kamala Harris tra rivendicazione del buono fatto nei quattro anni di presidenza Biden e discontinuità. L’Unità ne discute con un profondo conoscitore del “pianeta a stelle e strisce”: Alexander Stille. Giornalista e scrittore statunitense, Stille collabora con prestigiose testate come The New Yorker e The New York Times, e insegna giornalismo alla Columbia University.

C’è una novità sul fronte della politica internazionale: lo scambio di prigionieri tra gli Stati Uniti e la Russia. Come viene visto negli Usa?
Come uno sviluppo positivo. Quindici persone detenute nelle carceri russe tornano a casa. Non è solo una questione di quantità, anche se va sottolineato che si tratta del più grande scambio di prigionieri tra Russia e Occidente dai tempi della Guerra fredda, ma anche dello spessore di diverse delle persone che hanno ritrovato la libertà: si pensi, ad esempio, al reporter del Wall Street Journal, Evan Gershkovich, il marine Paul Whelan, o ad alcuni importanti dissidenti russi, come Vladimir Kara-Murza, Ilya Yashin, Lilia Chanysheva e Ksenia Fadeyeva (e due collaboratrici del “Fondo di Navalny” ndr), e, in primis, Oleg Orlov, (il “grande vecchio” della dissidenza, tra i fondatori della rete di associazioni Memorial che subito dopo la fine dell’Urss si impegnò a documentare la memoria dei gulag, e da allora lotta per i diritti umani e ha meritato nel 2022 il Nobel per la pace, ndr), e altri ancora. Si è tratto di un bel successo diplomatico per Biden, che aveva bisogno di un risultato positivo dopo l’annuncio del suo ritiro. Quanto all’impatto sul voto, dubito che avrà un peso importante nelle elezioni di novembre, perché la gente dimentica in fretta. Resta il fatto che è un’affermazione dell’importanza della diplomazia. Va peraltro ricordato che Trump ha ripetuto più volte che la Russia non avrebbe liberato dissidenti o cittadini americani finché lui non fosse ridiventato presidente. Lo scambio è una smentita molto netta di quell’asserzione.

Kamala Harris è la sfidante democratica di Donald Trump. Come valuta le sue prime mosse, discorsi, prese di posizione, da ormai certa candidata Dem?
Una boccata di fiducia e di entusiasmo in un partito, soprattutto la base, che rischiava la depressione e l’abbandono per come si stava trascinando la vicenda Biden. Le prime ore dopo l’annuncio del ritiro di Biden avevano fatto presagire una transizione confusa, con una Convention segnata dallo sconcerto e da una competizione tra candidati. L’incertezza regnava sovrana.
Invece, nello spazio di poche ore, si è manifestata una unità tra i politici e gli elettori democratici molto sorprendente.

Perché sorprendente?
Si poteva prevedere una rivolta, o comunque una frattura, con i sostenitori di Biden, che erano rimasti male per le forzature subite dal presidente per una uscita di scena. E qui Biden è stato molto bravo e responsabile. Ha subito indicato nella sua vicepresidente la candidata a succedergli nella corsa alla Casa Bianca, e questo ha fatto sì che i suoi sostenitori si sono subito allineati attorno alla Harris e tutti quelli che venivano considerati come possibili rivali, hanno subito appoggiato Harris.
Sono subentrati due fattori importanti…

Quali, professor Stille?
Il grande sollievo per la scelta, sofferta ma a quel punto inevitabile, di Biden di farsi da parte. Inevitabile, perché quasi tutti erano arrivati alla conclusione che ormai era troppo vecchio e malandato, e che i democratici stavano andando verso una sconfitta catastrofica. La situazione è cambiata, da un momento all’altro. La paura di Trump ha fatto sì che tutti si sono riuniti, molto rapidamente, e in politica si sa che il fattore tempo spesso risulta decisivo, attorno a Kamala Harris. E poi c’è l’altro dato importante: molte persone si erano formate un’opinione negativa su di lei, sulla base del fallimento della sua candidatura nel 2020. D’allora sono passati quattro anni, Harris ha ricoperto per quattro anni il ruolo di vicepresidente, è stata, di fatto, negli ultimi dieci mesi la voce dell’amministrazione democratica, andando in giro per l’America, sviluppando un suo stile di campagna elettorale che è molto più riuscito di quanto non si pensasse. È apparsa come una donna più sicura, più capace, e dopo tutta la preoccupazione montante sull’età e la salute di Biden, vedere una donna di 59 anni in piena forma, con grande energia, ha subito fatto spirare, tra gli elettori e i politici democratici, un vento di entusiasmo e di ottimismo. Entusiasmo e ottimismo che erano completamente assenti nella campagna elettorale di Biden. Chi pensava di votare Biden lo faceva senza entusiasmo, con un senso di dovere. Era certo meglio di Trump, ma assistere alle sue manifestazioni pubbliche era diventato qualcosa di deprimente. Si sperava che non facesse qualche gaffe o avesse un vuoto di memoria. La candidatura di Kamala Harris non ha ridato solo entusiasmo nel popolo Dem ma ha tolto a Trump e al suo entourage la carta dell’avversario affetto da una senilità malata, segnata da confusione verbale, mentale ecc. Il transfer da Biden a Harris ha rovesciato tutta una serie di situazioni negative per i democratici trasformandole in opportunità positive. Trump resta in testa nei sondaggi, ma la forbice si assottiglia ora che in campo è scesa la Harris. La vicepresidente si trova ora in una situazione non facile…

Vale a dire?
L’impopolarità, giusta o sbagliata, di Biden è qualcosa che Kamala Harris eredita, con cui è costretta a fare i conti. In quanto vicepresidente è chiamata a difendere molte scelte politiche compiute nei quattro anni di amministrazione democratica. Scelte non sbagliate ma che vengono viste negativamente da una fetta importante dell’elettorato americano. Deve fare i conti con il fatto che 2/3 degli americani è convinto che il Paese stia andando nella direzione sbagliata; quindi, Harris deve in qualche modo remare contro questa tendenza. In più c’è il fatto che sarebbe la prima presidente donna, donna e di colore, e non sappiamo quanto questo possa pesare. Negli ultimi quindici anni, anche con la presidenza Biden, i democratici stanno perdendo sempre più consensi tra gli elettori maschi, bianchi, soprattutto quelli con un livello di istruzione medio-basso, diciamo la classe operaia bianca, guadagnando invece quota tra i laureati, il che rappresenta un cambiamento rispetto al passato. In alcuni stati chiave, che determineranno il risultato elettorale – Michigan, Wisconsin, Pennsylvania – l’elettorato bianco, non laureato o con istruzione superiore, è molto numeroso e può risultare decisivo. Harris ha di fronte a sé una sfida difficile, ma almeno è riuscita a creare un clima di entusiasmo, di ottimismo, che è testimoniato anche dalla quantità di denaro che è riuscita a raccogliere in pochi giorni. Tutto questo non era affatto scontato. In dieci giorni, nell’elettorato democratico si è passati dalla disperazione all’ottimismo, alla volontà di battersi, a sostegno di un candidato che può farcela. E questa percezione, sommata alla paura di un secondo mandato di Trump, ha caricato l’elettorato democratico, rivitalizzato la base, rianimato i comitati elettorali. Certo, la vittoria non è in tasca, ma la partita è riaperta.

Quanto può pesare la scelta del vice in campo democratico?
È difficile quantificare. Certamente una scelta infelice può danneggiare. C’è il caso del 1972, quando il democratico George McGovern scelse il senatore del Missouri Thomas Eagleton, ma solo diciotto giorni dopo gli chiese di rinunciare, perché la stampa aveva scoperto che Eagleton era stato in cura per depressione e sottoposto a elettroshock. Eagleton rinunciò, McGovern fu costretto a scegliere un altro vice. Fu un qualcosa di devastante, e una campagna elettorale già di per sé difficile divenne proibitiva. McGovern perse pesantemente contro Richard Nixon. Probabilmente avrebbe perso comunque, ma la vicenda Eagleton ebbe un peso negativo notevole. L’importante è fare qualcosa che non possa nuocere, sperando di compensare le possibili debolezze nel profilo della candidata a Presidente. Trovare il giusto equilibrio.

Tema intrigante, da approfondire.
Mettiamola così: Kamala Harris è donna, dunque sicuramente il suo vice sarà un uomo. Kamala Harris è una donna di colore, e sicuramente il suo vice sarà un uomo bianco. Kamala Harris viene dalla California, uno stato molto “liberal”, i democratici sono vulnerabili negli stati del Midwest che sono un po’ meno “liberal”. Si cercherà di compensare i punti potenzialmente vulnerabili della Harris. Una strategia di scelta è quella che può portare ad un candidato alla vicepresidenza molto popolare nel suo stato di provenienza. Uno stato strategico per la vittoria di novembre. In questo senso, si pensa al governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro. Shapiro è ebreo e questo può diventare un fattore d’incertezza nella definizione del tandem presidenziale democratico: una donna di colore, e di origine asiatica, alla presidenza, il suo vice, sarebbe la prima volta, un ebreo. Ci sono diverse valutazioni da fare. Un’altra candidatura in quota è quella del senatore Mark Kelly, anche lui viene da un altro stato chiave, importante nelle elezioni, l’Arizona. Kelly ha inoltre un background militare che aiuta con l’elettorato moderato, in più è stato un’astronauta. Si cerca di aggiungere qualche fattore positivo per compensare i potenziali punti deboli di Kamala Harris.

Quanto peserà in questa campagna presidenziale la politica estera, in particolare le guerre in corso, in Ucraina e in Medio Oriente?
È difficile dire. Temo molto poco. Per la maggior parte degli americani quello che succede in Ucraina o a Gaza sembra molto lontano. I democratici potrebbero mettere in difficoltà Trump per le sue simpatie putiniane e per quello che sostiene sull’Ucraina. Se votate per Trump, scegliete di consegnare l’Ucraina a Putin, perché è quello che succederà con lui presidente. Potrebbero usare questo argomento. D’altro canto, la questione di Gaza è un punto molto vulnerabile per i democratici, soprattutto nello stato chiave del Michigan, dove c’è una grande comunità arabo americana, molto arrabbiata per la politica ritenuta troppo accondiscendente verso Netanyahu e Israele. C’è però da aggiungere che è difficile immaginare un candidato peggiore per gli arabi americani di Donald Trump. Non so se diventerà un fattore importante o no, sicuramente molti arabi americani, soprattutto in Michigan, avrebbero fatto molta fatica a votare per Biden. Non sappiamo se questa rabbia la riverseranno contro colei che è stata la vice di Biden alla Casa Bianca. C’è da dire che Harris è legata alla politica per il Medio Oriente di Biden, però parla della crisi umanitaria a Gaza con un tono diverso rispetto al presidente uscente. E questo fa intravvedere un possibile, anche se parziale, cambiamento di rotta per quanto riguarda la sua politica verso Israele e Gaza.

3 Agosto 2024

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