Il mondo del XXI secolo, che già si profila all’orizzonte, non sarà bipolare né unipolare, grazie a dio sarà multipolare.
(H. Chavez)
Grande il disordine sotto il cielo in Venezuela, dopo le recenti elezioni per la carica di presidente della Repubblica. È stato riconfermato, per il terzo mandato, Nicolás Maduro, con il 51,2% dei voti contro il 44,2 dell’oppositore Edmundo González Urrutia. È, costui, un semplice prestanome di María Corina Machedo, ricchissima e neofascista, che ha partecipato a tutti i tentativi di colpi di Stato, compreso il riconoscimento euroamericano dell’inconsistente Guaidò come presidente della Repubblica, mai votato da alcuno, ma autoproclamatosi. Ed è significativo che la signora, nel 2020, abbia siglato un accordo con il Likud di Netanyahu. Lo schieramento soccombente di destra ha contestato il risultato, parlando apertamente di brogli e dando vita a manifestazioni di protesta in tutto il Paese. Maduro, per contro, ha chiesto a tutti i militanti di non scendere nelle piazze, proprio per evitare un bagno di sangue.
I grandi media – internazionali e, in prima fila, quelli italiani – hanno subito sposato la tesi della illegalità delle elezioni, giustificando il caos successivo. Ma che cosa dicono i fatti? In primo luogo: il sistema elettorale venezuelano è fra i più moderni e affidabili al mondo, sottoposto a ben 16 verifiche alla presenza dei rappresentanti di tutti i partiti. Prevede inoltre che, alla chiusura dei seggi, i voti stampati devono corrispondere al 100% a quelli espressi elettronicamente, sicché la manipolazione è impossibile. A tal punto che gli 800 osservatori internazionali, provenienti da 107 Paesi, hanno riconosciuto la piena legittimità del voto. Lo stesso Maduro ha deciso di consegnare alla Corte suprema tutti i dati elettorali, a riprova che non c’è nessun timore per una verifica. Peraltro: lo stesso sistema elettorale è stato applicato in ben 32 elezioni precedenti, senza che mai sia stato evidenziato alcun problema.
D’altra parte molti erano i segnali che lasciavano presagire una conferma di Maduro, del suo partito Psuv (Partito socialista unito del Venezuela) e del Gran polo patriotico da essi guidato. Dalla locale Confindustria, schieratasi con il Polo, all’adesione di governatori e sindaci di destra, alla partecipazione di massa alla campagna elettorale. Il successo di Maduro non viene dal cielo, deriva dai progressi compiuti dal Paese sotto la sua presidenza. Il tasso di crescita economica del Venezuela è pari al 4,5%, il più alto dell’America Latina; l’inflazione è stata fortemente ridotta; la produzione complessiva è aumentata, raggiungendo il 90% di autosufficienza in campo agroalimentare; una moltiplicazione di piccole e medie imprese e, nell’insieme, una diminuzione della criminalità, con il calo del tasso di omicidi ogni centomila abitanti da 95 a 2. Il tutto, si badi, in presenza di sanzioni internazionali (Usa e Ue) iugulanti e corrosive. Sul piano politico i progressi sono stati parimenti rilevanti. Grande allargamento, per esempio, della democrazia partecipata, con la creazione di Comuni autogestite, capaci di decidere circa l’impiego delle risorse territoriali e dei consistenti investimenti pubblici.
E poi: la democratizzazione dell’esercito e delle forze di polizia, che non a caso sostengono convintamente l’attuale presidente. In breve: il Psuv e Maduro hanno compiuto quella trasformazione di fondo per cui non solo hanno gestito il potere governativo, ma hanno soprattutto riformato lo Stato in senso democratico – quello che non è riuscito a fare Lula in Brasile, rimasto perciò debole in seguito alla perdurante offensiva delle destre. Sicché il risultato elettorale non è affatto una sorpresa. Lo è, casomai, solo per le potenze occidentali, che si prefigurano un’America Latina che esiste solo nelle loro farneticazioni di dominio. Sul Venezuela si è giocata – e si sta giocando – una partita torbida e insidiosa. Prima delle elezioni, sondaggi pilotati davano per certa la vittoria plebiscitaria della destra, in modo che, se tale esito non si fosse verificato, automaticamente si sarebbe trattato di brogli.
Dopo il risultato, l’opposizione filostatunitense incendia le piazze, con una esplicita finalità destabilizzatrice. Secondo uno schema, potremmo dire, “alla cilena”: ricordate quando ci fu il blocco dei camionisti, che paralizzò il Cile anti governo Allende, prima del colpo di stato di Pinochet? Ma in Venezuela non è affatto detto che il film possa ripetersi, sia per la diversa propensione delle forze armate sia, soprattutto, per il protagonismo della maggioranza del popolo, che vuole andare avanti nel consolidare le conquiste di emancipazione e di democrazia. Il pericolo maggiore, tanto per cambiare, è costituito dall’interferenza di Usa e Ue, interessati ai giacimenti petroliferi del Venezuela, i più grandi al mondo, sempre più appetibili data la instabilità in Medioriente.
Da qui la saldatura fra Washington e i leader della destra, che si mascherano da vittime del presunto autoritarismo interno per riempirsi le tasche dei milioni di dollari… disinteressatamente forniti loro.
Il Venezuela, oggi, è il crocevia dell’America Latina. Nel Paese, che si è dotato di una delle costituzioni più avanzate del mondo, si decide in parte significativa se l’America del Sud rimarrà sotto l’influenza predatoria dell’Occidente o aprirà una via inedita di autonomia e reale indipendenza. Ciò che accade a Caracas è in qualche modo analogo a ciò che avviene in Medioriente, di cui l’assassinio del leader palestinese Haniyeh a Teheran è un simbolo: a prevalere, sul piano internazionale, sarà l’attuale distruzione di ogni regola – tranne quella del più forte che così la impone unilateralmente con prepotenza – o, invece, saranno i popoli a fare irruzione nella storia per costruire un nuovo equilibrio multipolare nel mondo? È per questo insieme di ragioni che la Repubblica bolivariana del Venezuela costituisce un esperimento innovatore importante, che merita attenzione e sostegno.