America, note ed elezioni

La musica per Kamala un’arma contro Trump

Durante le campagne elettorali per le presidenziali in Usa, alcune canzoni sono diventate dei veri e propri simboli dei candidati e della loro visione politica

Spettacoli - di Graziella Balestrieri

5 Agosto 2024 alle 09:00

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La musica per Kamala un’arma contro Trump

“E nei sogni di bambino la chitarra era una spada e chi non ci credeva era un pirata” (Sono solo canzonette, Edoardo Bennato).

Lo cantava Edoardo Bennato, che sì, “sono solo canzonette” ma nemmeno troppo, perché una chitarra, per chi ci crede, può diventare un’arma molto più potente dei soldi. Così la musica rischia, il più delle volte, di diventare un’arma a doppio taglio, sia per la canzone che viene scelta, sia per l’artista a cui appartiene la canzone. L’America che dello show è signora e padrona, non si è mai fatta mancare nulla dal punto di vista musicale, tantomeno quando questa musica riguardava la corsa alle presidenziali. Così la nuova speranza dell’America che si aggrappa al volto giovane e deciso dell’ex procuratrice distrettuale e attuale vice presidentessa degli Stati Uniti d’America, Kamala Harris, come fu per i suoi precedenti, ha scelto per questa, che sarà la corsa verso la salvezza dalle grinfie e dalle tronfie smorfie trumpiane, il singolo Freedom, di una delle beniamine del popolo americano, Beyoncé, che non solo ha dato il permesso di utilizzare la sua canzone per la campagna elettorale di Kamala, ma si è dimostrata entusiasta, entusiasta di poter contribuire a salvare l’America, in un qualche modo, dagli inferi trumpiani.

Un Trump che dopo il ferimento e quel pugno chiuso, rivolto al cielo e ai suoi elettori, si è ripreso la scena come un grande attore dello star system. Non stava recitando di certo, ma sta di fatto che dopo l’abbandono, quasi costretto, di Biden, Trump ancora una volta è lì, pronto a riprendersi il trono, più di prima, ma senza una degna colonna sonora. Anzi, le canzoni e la musica a lui hanno portato solo rogne, antipatie e polemiche. L’America si sa, è un mondo a parte, nel bene e nel male, per i suoi estremismi da un lato e anche perché sappiamo ormai bene da anni che le campagne elettorali diventano uno show nello show. Così in alcuni casi ci troviamo di fronte a quella che in gergo viene definita “un’americanata”, a tratti quella che sembra una campagna elettorale sicuramente mille volte più avvincente ed entusiasmante di quelle nostrane. La scelta della canzone o delle canzoni che accompagneranno la vittoria o la sconfitta verso la Casa Bianca, il cammino verso e con l’elettorato americano ha un peso non indifferente.

In America, dunque, non sono solo canzonette, anzi, attorno a questa scelta musicale si muove un mondo di polemiche e di fan, pronti a seguire la loro star di turno a seconda delle loro indicazioni politiche. Un potere straordinario, quello che i media affidano alla musica, tanto da poter dire che Taylor Swift sia in grado di cambiare i destini della Casa Bianca, e si dice e si è detto anche che, se uno come Bruce Springsteen, scende in campo, musicale e non, contro Donald Trump, beh qualcosa dello strapotere comunicativo di Donald inizia a crollare. Il figlio dell’America operaia, Bruce Springsteen, il figlio dell’America che ce la fa, nonostante la società lo ritenga una nullità, il figlio dell’America che accoglie e non che respinge, non è nuovo a queste discese in campo contro la parte repubblicana. Iniziò tutto con Ronald Reagan, reo di aver utilizzato Born in the USA anche modificandola e scatenando l’ira di Springsteen che con i repubblicani non ha mai voluto avere niente a che fare. Durissimo ancora di più nei confronti di Donald Trump, dove non perde occasioni, ufficiali, per ribadire l’ostilità nei suoi confronti.

Nel 2020 lo stesso Bruce lesse, durante una trasmissione radiofonica, una poesia di Elayne Griffin Baker, attaccando l’amministrazione trumpiana, rea di aver portato il più grande paese del mondo alla rovina, sotto ogni punto di vista. Lo stesso Bruce, seguendo il pensiero della poesia, chiedeva agli ascoltatori e agli americani tutti «Dove è andato a finire il paese? Non c’è arte, non c’è letteratura, non c’è poesia, né musica, nella Casa Bianca di Donald Trump. Non ci sono animali in questa Casa Bianca, nessun fedele amico dell’uomo, nemmeno fiere della scienza per bambini. Niente momenti di famiglia degli Obama sulla spiaggia delle Hawaii, niente Bush che pescano nei laghetti. Niente Reagan in groppa a un cavallo e neppure Kennedy che giocano a touch football. Dov’è andato quel paese? Dove sono finiti il divertimento, la gioia, l’amore e felicità? Abbiamo perso le caratteristiche culturali che fanno grande l’America. Abbiamo perso così tanto, in così poco tempo».

Sempre Bruce Springsteen continua a tenere fede ai suoi ideali e spera che gli americani, o almeno la gente che lo ama e lo segue, riescano a capire quanto la vittoria di Trump potrebbe essere pericolosa non solo per l’America, ma per il mondo intero. Lo ha definito «un narcisista tossico, talmente tossico da poter ingannare tutto l’intero sistema democratico. È un pericolo per la democrazia. Non ha decenza, non è riflessivo e non è mai capace di prendersi le proprie responsabilità su quello che dice. Io sono nato in America, tu non sai neppure che cosa significhi essere americano», così tuonava il Boss durante un’intervista alla Cbs. E, ribadendo l’inadeguatezza di Trump a prendere in mani le redini della più grande potenza mondiale, durante la prima sfida, poi vinta, contro Hillary Clinton, ha aggiunto: «Viviamo in un’epoca spaventosa. La guida della nazione è stata gettata nelle mani di qualcuno che non ha idea di che cosa significhi governare una grande nazione. E sfortunatamente, è qualcuno che non ha la minima idea di cosa significhi realmente essere un americano».

Ma il Boss non è l’unico artista ad avercela con la politica effimera “tutto muscoli e poco cervello” di Donald Trump. Durante la sua prima campagna elettorale, svariate volte, sia familiari degli artisti che gli artisti in prima persona, si sono scagliati contro il tycoon, per l’utilizzo delle canzoni che Trump ne faceva durante le sue campagne elettorali. Basti pensare a Nothing compares to you di Sinnead O’Connor, dove i familiari della scomparsa artista irlandese si sono affidati agli avvocati per far sì che non venisse mai più utilizzata la canzone (scritta da Prince) in questione, poiché l’artista, se fosse stata viva, non si sarebbe mai potuta accostare ad un personaggio come lui. Gli stessi parenti di Prince, gli avevano negato nel 2019 l’utilizzo di Purple rain, sempre attraverso nota dei legali, dove Trump veniva indicato come un personaggio completamente lontano dagli ideali e dalla musica del genio di Minneapolis. Così anche Adele non ha permesso che venisse usata la sua Rolling in the deep, e anche gli eredi di George Harrison hanno messo un veto sull’uso della canzone Here comes the sun.

E ancora: Mick Jagger e Keith Richards che non gli hanno concesso l’uso di You can’t always get what you want, o i R.E.M. che, come ha dichiarato Michael Stipe, «non si capisce nemmeno come Trump abbia potuto pensare ad utilizzare una nostra canzone, visto che i suoi comizi sono tutti una farsa». Così il rifiuto è arrivato anche da Neil Young, dai parenti di Leonard Cohen, fino a Phil Collins e Johnny Marr (The Smiths). Donald Trump non è amato dalla musica, non è amato dai cantanti americani, se non qualche voce sporadica, come quella di Kid Rock, che non ha a questo punto l’influenza di un Michael Stipe o di Mick Jagger o, peggio ancora, del Boss, Bruce Springsteen.

C’è chi dà poca importanza alla musica, c’è chi invece, come fu per Barack Obama, aveva dato alla musica e all’arte tutta un ruolo centrale per la rinascita del Paese. Per la prima volta, in maniera, quasi totale, la musica ha amato profondamente la politica e viceversa. Uno scambio di passione e amore, coinvolgimento anche. Bisognerebbe dare più importanza al valore della musica, perché la musica può capire ancora prima degli altri quello che potrebbe avvenire… In fondo il pericolo Donald Trump con tutto il suo delirio di onnipotenza e narcisismo era già presente nel brano Johnny Ryall dei Beastie Boys, anno 1989, dove l’alter ego senzatetto Trump veniva contrapposto al ricchissimo e sfrontatissimo Trump. La musica è la faccia di un’America che ancora forse crede, come cantava Bennato, che potrebbero essere anche solo canzonette ma al momento giusto comprende anche che potrebbero diventare spade e dare uno squarcio di luce nel buio (trumpiano) che potrebbe avanzare.

5 Agosto 2024

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