Criticare una sentenza è diritto costituzionale di tutti i cittadini, parlamentari inclusi, che in effetti ne hanno spesso usufruito. La sentenza che assolse Freda e Ventura per la strage di piazza Fontana non fu certo accolta con un coro di applausi e i fatti hanno poi dato ragione a chi la criticava, essendo poi emersa la colpevolezza degli assolti, non più processabili perché la legge italiana non prevede possibile revisione delle assoluzioni passate in giudicato. Ma anche la sentenza che condannò Adriano Sofri per l’omicidio del commissario Calabresi fu molto aspramente bollata da politici, giornalisti e intellettuali senza che nessuno, giustamente, se ne scandalizzasse. Per la strage di Bologna non è così. Sostenere l’innocenza dei condannati, gli ex terroristi neri dei Nar, è un delitto di cui si può reclamare la sanzione, come nel caso del parlamentare e dirigente di Alleanza nazionale Federico Mollicone, una macchia per la quale si può essere messi all’indice e trattati da depistatori e complici degli stragisti, se non poveri mentecatti.
La situazione che si è delineata in occasione del 44esimo anniversario della strage è particolarmente assurda perché, proprio come nei casi di piazza Fontana e dell’omicidio Calabresi, si tratta di processi molto controversi, con sentenze discorsanti e dubbi sollevati da più parti. Nel caso della strage di Bologna, da moltissimi intellettuali, giornalisti ed esponenti della sinistra. A torto o a ragione, dunque, sostenere che le sentenze per la strage del 2 agosto 1980 non hanno fatto giustizia né acclarato la verità è, e dovrebbe essere considerato, fisiologico. Il putiferio mediatico che si è scatenato negli ultimi giorni, però, è anche più inspiegabile. La provocazione, infatti, è partita senza possibile dubbio dal presidente dell’Associazione dei parenti delle vittime, Paolo Bolognesi, ex parlamentare del Pd, che nel discorso del 2 agosto ha accusato il governo di star realizzando, con la sua riforma della giustizia, il progetto golpista di Licio Gelli, indicato dalle sentenze, sia pur sulla base di indizi fatiscenti, come il regista della strage. È andato oltre, sostenendo che «le radici» della strage sono «a tutti gli effetti» presenti nell’attuale governo. La replica di palazzo Chigi era inevitabile, anche se la premier è caduta in parte nella trappola, esagerando con il vittimismo quando ha affermato che in questo modo si metteva in pericolo la sua stessa vita.
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Ma, sbavature a parte, la risposta era doverosa e inevitabile ma ha innescato una raffica di critiche secondo le quali, capovolgendo la realtà, Giorgia Meloni avrebbe «attaccato i parenti delle vittime», invece di difendersi da un attacco assolutamente gratuito. Non solo, infatti, i leader di FdI non possono essere accusati di complicità, anche solo intellettuale, con i terroristi neri per ragioni biografiche, ma lo stesso Almirante, da questo punto di vista, è al di sopra di ogni sospetto. Nel clima esasperato che si è così creato il 2 agosto, le parole di Mollicone, che ha semplicemente sostenuto che a suo parere le vittime sono innocenti e i processi viziati, hanno avuto un indebito effetto deflagrante. Il capo dello Stato è intervenuto sulla vicenda, approfittando della ricorrenza di un’altra strage, quella del treno Italicus dell’agosto 1974, per sostenere a spada tratta e con tutta l’autorevolezza del caso la matrice indiscutibilmente neofascista dello stragismo. Il servizio alla verità sarebbe certamente stato più completo se il presidente avesse anche citato le responsabilità dello Stato, e dunque del partito-stato della prima Repubblica, la Dc, nelle stesse stragi e in generale nella sciagurata “strategia della tensione”, che peraltro nel 1980, al momento della strage, si era già da anni consumata.
Probabilmente le ragioni della provocazione di Bolognesi, ma in realtà di tutto il Pd, a partire dalla segretaria e dell’intero centrosinistra, sono due. Sia la Procura di Bologna che l’Associazione parenti delle vittime hanno sempre vissuto con massimo fastidio le critiche rivolte alle sentenze, soprattutto perché a lungo quelle critiche partivano non dalla destra ma da figure la cui collocazione a sinistra e il cui antifascismo non erano sospettabili, come Rossana Rossanda. Alzare i toni e trasformare la discussione in uno scontro tra fascismo e antifascismo, tra i difensori della democrazia e i suoi nemici, ha fatto letteralmente scomparire quelle voci, sommerse dal fronteggiamento tra Procura e destra. Il che è un po’ assurdo se si tiene conto che per moltissimo tempo la destra non aveva detto niente su quei processi, criticati invece solo da sinistra. In secondo, e più essenziale, luogo lo scontro è servito a radicalizzare ulteriormente il confronto politico, giocato ormai sul filo di una guerra civile mimata, uno scontro di civiltà tra la democrazia e il sovranismo antidemocratico di matrice comunque fascistoide.
È una strategia politico-mediatica comprensibile, sia pur non precisamente limpida, ma la cui efficacia è dubbia. In Italia, infatti, dalla metà degli anni ‘90 è stata adoperata infinite volte, soprattutto contro Silvio Berlusconi, il semifascista mafioso nemico dei valori della civiltà democratica e liberale, ma anche contro i 5S, descritti alla lunga come una sorta di nuovo Pnf, e contro Salvini, il “nuovo duce”. I risultati non sono stati confortanti: Berlusconi è rimasto perno del quadro politico per 25 anni, il M5s ha vinto le elezioni, salvo poi dimostrarsi incapace di gestire la vittoria; al posto di Salvini gli elettori hanno premiato Giorgia Meloni, collocata alla sua destra. Sarebbe il caso di chiedersi, anche solo per senso dell’opportunità, se quella strategia premi la sinistra o, come sapeva perfettamente il mago della propaganda Berlusconi, non sia vero l’esatto opposto.