La guerra che più ha segnato la seconda metà del secolo scorso, quella del Vietnam, non ha una data precisa di inizio e non può averla: il conflitto che più di ogni altro ha lacerato gli Usa e che è costato all’America 58mila morti, la più esosa dopo le due guerre mondiali e la guerra civile, non è mai stato ufficialmente dichiarato. Ma se si dovesse indicare una data che segna l’inizio della vera e propria guerra, quella sarebbe il 7 agosto 1964. In quel giorno la Camera approvò all’unanimità e il Senato con due soli voti contrari la Risoluzione congiunta che permetteva al presidente di «prendere tutte le misure necessarie, incluso l’impiego delle Forze armate, per assistere ogni Stato membro del Seato che richieda assistenza in difesa della sua libera sovranità».
Il Seato era il Patto di difesa dei Paesi del sud-est asiatico firmato a Manila nel 1954. Lo Stato a cui alludeva la Risoluzione era in quel momento uno solo: il Vietnam del sud. Sulla base di quella Risoluzione il 2 marzo 1965 fu scatenato il primo bombardamento sul Vietnam del nord e sei giorni dopo le prime truppe americane sbarcarono sulla costa del Vietnam del sud. Il mandato concedeva al presidente una tale libertà d’azione che Johnson lo definì «comodo come la camicia da notte della nonna». La Risoluzione fu approvata sull’onda emotiva dell’incidente del golfo del Tonchino, termine col quale in realtà si indicano due diversi scontri a fuoco tra il cacciatorpediniere americano Maddox e motosiluranti del nord Vietnam. Uno, quello del 2 agosto, avvenuto davvero. L’altro, di due giorni dopo, inventato o almeno gonfiato ad arte per strappare al Congresso il permesso di impegnare direttamente l’esercito a fianco del Vietnam del sud.
La missione del 2 agosto, sulla base dei documenti desecretati (ma non tutti lo sono ancora) nei decenni successivi, aveva un palese intento provocatorio. La nave svolgeva funzioni di spionaggio lungo le coste del nord Vietnam in acque che Hanoi considerava come territoriali e che per gli Usa erano invece internazionali. Nello scontro a fuoco, che secondo la versione americana fu innescato dalle siluranti nordvietnamite, intervennero quattro aerei da combattimento americani, decollati dalla portaerei Ticonderoga. Furono uccisi quattro marinai di Hanoi mentre non si contarono vittime americane. Due giorni dopo, secondo la versione diffusa da Washington, la stessa Maddox e un altro cacciatorpediniere, la Turner Joy, rilevarono segnali radio che indicavano un imminente nuovo attacco delle siluranti vietnamite. Nello scontro a fuoco che seguì, in conseguenza dell’attacco nordvietnamita, due di quelle siluranti furono affondate e altre due seriamente danneggiate. Nella sua relazione al Congresso, il 7 agosto, il segretario alla Difesa, McNamara, sostenne che le navi americane non stavano affatto supportando quelle sudvietnamite e che esistevano «prove inequivocabili di un attacco non provocato» contro la Maddox il 4 agosto.
Quelle prove non esistevano. L’attacco del 4 agosto era frutto di pura invenzione o, nella migliore e meno probabile delle ipotesi, di segnali radar male interpretati dalle due navi americane. In ogni caso l’incidente fu l’occasione di cui il presidente Johnson aveva bisogno per entrare apertamente in guerra a fianco del regime di Saigon. Ma la strada che avrebbe portato alla guerra e alla più profonda e lacerante crisi interna negli Usa non la aveva imboccata Johnson che anzi, non facendo parte di Camelot, la cerchia ristretta dei collaboratori di John Fitzgerald Kennedy, ne aveva saputo pochissimo prima di subentrare alla presidenza dopo l’assassinio di Kennedy, il 22 novembre 1963. Dopo la vittoria sulla Francia e la conquista dell’indipendenza, il Vietnam era stato diviso in due ma la separazione avrebbe dovuto essere solo momentanea e concludersi con libere elezioni nel 1956. Il presidente del Vietnam del sud, Ngo Dihn Diem, rifiutò però di indire le elezioni, sostenendo che nel nord comunista non sarebbero state davvero libere.
Gli aiuti economici e i primi consiglieri americani iniziarono ad arrivare già negli anni ‘50 e la repressione delle prime sacche di guerriglia fu durissima. Nel 1960 si formò il Fronte di liberazione nazionale, nel quale i comunisti erano la forza principale e di gran lunga egemone ma non unica, subito ribattezzato da Saigon: Viet-Cong, “vietnamita rosso”. Le prime due vittime americane si contarono nel luglio 1959: facevano parte di un primo contingente di 700 consiglieri, furono uccisi nel corso di un attacco vietcong a una base militare. L’impegno americano, pur se formalmente negato, si moltiplicò negli anni della presidenza Kennedy. Gli americani iniziarono a impegnarsi direttamente nello spionaggio e nel sabotaggio nel 1961. L’anno successivo i consiglieri militari, in realtà già impiegati in operazioni belliche non dichiarate, erano già 12mila. Nello stesso anno gli americani passarono all’uso del micidiale defoliante “agente arancio”, a base di diossina, per disboscare le giungle che offrivano riparo ai vietcong.
In 10 anni tra i 2 e i 5 milioni di persone, inclusi i soldati americani, furono esposti all’effetto letale dell’agente arancio. In giugno McNamara mise il presidente del Vietnam del nord, Ho Chi Minh, di fronte a un ricatto esplicito: se il nord non avesse smesso di appoggiare i guerriglieri comunisti nel sud, sul Paese di Ho Chi Minh sarebbero cadute più bombe «di quante ne hanno ricevuto Italia, Germania, Giappone e Corea del nord messe insieme». Ho Chi Minh rifiutò la sostanziale resa: «Possiamo anche perdere mille uomini per ogni soldato americano ma alla fine vinceremo noi». La forza dei vietcong derivava anche dagli errori degli Usa, la cui strategia antiguerriglia devastò la tradizionale organizzazione dei villaggi, e dalla dittatura di Diem. Il presidente non era corrotto ma era nepotista e i suoi potentissimi parenti, invece, erano corrottissimi. Inoltre, avvantaggiava puntualmente la minoranza cattolica, provocando così l’ira della minoranza buddhista. La Casa Bianca si rese conto che la presenza di Diem al potere era di per sé un sostegno impareggiabile alla causa della guerriglia e si liberò del presidente con un sanguinoso golpe nel novembre 1963.
Il vicepresidente Johnson fu tenuto completamente all’oscuro dell’intrigo, che peraltro fu inutile. I successori di Diem si rivelarono altrettanto dittatoriali, ma anche più corrotti e persino più impopolari. Due giorni dopo l’uccisione di Kennedy, appena asceso alla presidenza, Johnson confermò per intero il sostegno degli Usa a Saigon. Conosceva la situazione pochissimo e temeva di trovarsi impigliato in una palude dalla quale uscire sarebbe stato molto difficile. Ma era anno di elezioni e temeva di mostrarsi debole di fronte alla destra. I consiglieri erano gli stessi che con Camelot avevano spinto per il coinvolgimento americano. L’amministrazione però era divisa tra chi chiedeva di passare al coinvolgimento diretto, cioè di iniziare a bombardare e a inviare le truppe mettendo da parte le operazioni “sotto copertura” e chi era contrario, tra i quali figurava lo stesso McNamara.
Johnson provò ad adottare la strategia suggerita da Cabot Lodge, ambasciatore a Saigon: fece promettere a Ho Chi Minh sostanziosi aiuti economici se avesse smesso di sostenere i vietcong ma minacciò anche di nuovo il ricorso alle forze volanti e alle bombe se avesse insistito nell’appoggiare i guerriglieri. Ho Chi Minh di nuovo rifiutò di abbandonare i partigiani del sud. Ma a far pendere la bilancia dal lato dell’intervento, furono le continue sconfitte sul campo dell’esercito sudvietnamita, per quanto aiutato dai “consiglieri” americani. La decisione di entrare in guerra, pur senza dichiararla, fu presa così. L’incidente del Tonchino fu il casus belli in parte cercato e provocato, in parte semplicemente inventato. Il presidente parlò alla nazione in tv. Disse che l’America stava combattendo nel sudest asiatico «la stessa sfida che affrontiamo con coraggio in Turchia, a Berlino e in Corea, in Libano e a Cuba». Era cominciata la guerra che avrebbe diviso l’America più di quanto fosse mai successo dalla guerra civile in poi e che sarebbe terminata 11 anni dopo con l’ingloriosa fuga da Saigon.