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Intervista a Walter Massa: “Soluzione a due Stati? Primo passo è riconoscere la Palestina”

Walter Massa, presidente nazionale dell’Arci. Eliminazioni mirate, attacchi e rappresaglia. Il Medio Oriente è in fiamme. E la politica sta a guardare.
Vorrei concedermi una premessa a cui da tempo penso per rispondere a questa sua domanda. So che potrà apparire una provocazione o un mezzo impazzimento, ma personalmente sento il bisogno di tornare ad approfondire le cause, invece che solo gli effetti, di questa drammatica situazione. Voglio dunque rispondere alla sua domanda azzardando che il vero nemico della pace in questo momento non è Israele, l’Europa, Trump o il Governo italiano più a destra della storia repubblicana. Il vero nemico, come ci ricorda spesso Luciana Castellina, è “T.I.N.A” – There Is Not Alternative – ossia, non esiste alternativa a questa situazione di guerra permanente condita da autoritarismo e repressione continua, in cui la politica da decenni non conta realmente più. È proprio in questa percezione mainstream ormai consolidata che albergano e s’impongono i peggiori istinti, le peggiori interpretazioni della politica e le visioni più miopi possibili. Ed è sempre in questo brodo dal gusto amaro che ipocrisia, ignavia e piccoli tornaconti personali le fanno da padrone. Del resto, è la storia a dirci che se è stato possibile sterminare 6 milioni di ebrei in poco meno di 6 anni, ciò è avvenuto grazie alle tantissime zone grigie di chi sapeva ed è stato zitto o di chi non ha mai voluto vedere pur abitando a ridosso dei cancelli di Auschwitz o Birkenau. Quindi sì, la politica sta a guardare, manca il coraggio di dire basta al governo Netanyahu, manca una reale volontà alla fine dell’occupazione delle terre palestinesi, ma manca anche una voce fortissima, decisa e autorevole del movimento pacifista internazionale anch’esso talvolta schiacciato da un politicismo sempre più asfissiante.

Nel corso degli anni, Israele ha eliminato diversi capi di Hamas, a partire dal fondatore del movimento islamista palestinese, sheikh Ahmed Yassin. Ma Hamas ha continuato ad esistere.
La storia degli ultimi decenni, in modo più chiaro dall’11 settembre 2001 in poi, a mio avviso, ci ha insegnato che i cattivi di turno sono stati la solida premessa per l’occidente su cui costruire una revisione degli equilibri o, peggio, una modalità arcaica in cui regolare vecchi conti. E si badi bene che la stragrande maggioranza di questi cattivi che dal 2001 si sono succeduti – tutti ammazzati – facendo saltare per aria i loro poteri, nelle vite precedenti sono stati tutti al servizio più o meno indirettamente della fantomatica coalizione per l’esportazione della democrazia che prima in Iraq, poi in Afghanistan, poi in Libia, in Siria, come anche in Israele, non solo ha lasciato dietro di sè sangue e morte ma, ancora oggi, solo macerie e instabilità. Se non bastasse la politica a dare spiegazioni del perché vi è un ritorno al radicalismo antioccidentale, basterebbe un po’ di logica a spiegarlo. A furia di perpetrare lo stesso sistema di potere fondato sulle bugie, sull’inganno, sul non rispetto del diritto internazionale e sulla violenza, anche la culla più autorevole della democrazia perde di autorevolezza e di credibilità. E l’Occidente, Israele compreso, di questa autorevolezza ne ha perso talmente tanta da far impallidire il peggiore degli Stati canaglia. Hamas continuerà ad esistere grazie ad Israele ed è questo il paradosso, così come i talebani hanno ripreso tranquillamente il potere dopo anni di occupazione militare straniera. E così come, nonostante la morte di Gheddafi e la fine del suo potere, la Libia oggi è a tutti gli effetti un coacervo di violenza, prevaricazione e instabilità proprio davanti alle nostre coste. Possiamo dunque stupirci che Hamas sia vivo e vegeto e continui a dettare la linea? Possiamo dunque pensare ancora che Hamas sia l’unico responsabile dell’instabilità mediorientale? Possiamo, soprattutto, ancora immaginare il mondo come una proprietà occidentale dove regnare attraverso colpi di stato individuando di volta in volta nemici cattivi da abbattere? O forse non sarebbe il caso di cominciare a fare i conti con il fatto che il piccolo mondo racchiuso dentro al concetto di “occidentale” non è più una superpotenza, tantomeno dal punto di vista economico?

Quando non si sa dove andare a parare, e non si è un ultrà d’Israele, si ritira fuori la soluzione a due Stati. Ma vista la colonizzazione senza freni della Cisgiordania, dove ad oggi vivono oltre mezzo milione di israeliani, dove dovrebbe e potrebbe sorgere questo ipotetico stato di Palestina?
Questa sua domanda mi riporta necessariamente ai concetti che esprimevo prima relativamente a ipocrisia e ignavia. Ora le pare possibile sbandierare la soluzione “due popoli e due stati” da parte di chi non ha mai voluto, neppure simbolicamente, riconoscere lo Stato palestinese, che dovrebbe essere uno dei due popoli e uno dei due stati? Le pare possibile che la nostra diplomazia e il nostro governo si presentino ai tavoli proponendo questa irrealizzabile proposta senza minimamente vergognarsi di aver appena rifiutato una proposta approdata in Parlamento da parte dell’intergruppo parlamentare sulla Palestina? Non solo, mi lasci domandare retoricamente se può essere possibile che in questo mondo possa continuare ad esserci chi può autodeterminarsi liberamente e chi no, come appunto palestinesi e curdi, solo per citare i più evidenti? E poi sì, a voler provare a fare un qualsiasi ragionamento di merito sull’ipotetico stato palestinese futuro, in queste condizioni come potrebbe essere possibile se non con l’invio dei caschi blu delle Nazioni Unite, pur con tutti i limiti. Ciò che veramente manca in fondo è questa prioritaria volontà a vederlo nascere uno Stato palestinese. Ed è per questo motivo che in quel viaggio fino al valico di Rafah nel marzo scorso ho parlato di sadismo: non solo vengono ammazzati dentro la Striscia o nei territori occupati ma non vengono neppure fatti uscire e chi sopravvive può tranquillamente morire di fame, sete o mancanza di cure o, come in Cisgiordania, ridotti nella migliore delle ipotesi in schiavitù che, per violenza e durata non ha nulla da invidiare all’apartheid sudafricano combattuto fino alla morte da Nelson Mandela.

Un mondo sempre più riarmato è un mondo sempre meno sicuro. Eppure, le spese per gli armamenti continuano ad aumentare a dismisura. Hiroshima e Nagasaki, 79 anni dopo, non hanno insegnato nulla?
Nei giorni scorsi ho letto con attenzione un ricordo apparso su un quotidiano di Giovanni Spadolini. Un uomo, uno statista, che di questi tempi farebbe la differenza pur nella distanza su molti temi. Ebbene in un passaggio si ricordava di come la sua strategia durante la guerra fredda fosse quella di aumentare la proliferazione missilistica in Europa per scongiurare un conflitto militare tra est e ovest. Ora, sia chiaro, non mi stupisce e in fondo provo a comprenderne pure le ragioni, ma non vorrei che la lettura storica che ne deriva sia quella secondo qui è stato grazie alla Nato e alle sue politiche di espansionismo missilistico in Europa che a fine anni ‘80 si firmò il celebre trattato tra il presidente Reagan e il presidente Gorbaciov a Reykjavik. La troverei un po’ di parte e assolutamente limitata dato che quegli anni furono, ad esempio, conseguenti alla più grande contestazione pacifista mondiale contro la guerra in Vietnam e poi alla più grande campagna popolare contro le installazioni missilistiche in Europa che in Italia vide nascere il Movimento pacifista italiano che poi ci ha portato fino ad oggi. Quindi, se di meriti si deve parlare – pur nei pochi risultati raggiunti a guardare la situazione odierna – molti di questi stanno nella cultura e nella sensibilità pacifista che questo paese ha. Un pacifismo fortemente politico per quel che ci riguarda, peraltro. Ma come dicevamo prima pare un mondo alla rovescia questo: l’uso delle armi in questa fase storica è già diventato l’unico strumento per dirimere le controversie tra nazioni; l’Europa, non avendo mai compiuto nei fatti quel processo di unione politica vera e credibile, si sta rifugiando da qualche anno in una neo-società delle nazioni ante litteram che non fa presagire nulla di buono.
Per contro la crisi economica e lo schiacciamento che subiamo in Occidente sul fronte produttivo, sta facendo sì che l’unica via d’uscita sia produrre armi e soprattutto venderle, cosa che in Europa e in Italia facciamo ancora bene per la gioia del governo e degli apparati interessati. E quando entri in questo loop tutto militare come puoi pretendere che non prenda campo anche un po’ di nazionalismo e, perché no, anche un po’ di fascismo? Quindi vorrei chiudere così: almeno ai tempi, Spadolini era sì per l’installazione di più missili possibili, ma con l’obiettivo di ridurre la possibilità di un conflitto. Oggi mi pare che l’unico interesse – se esiste – sia quello ambiguo di rispondere ad un bisogno produttivo, non avendo un altro straccio d’idea e se possibile guadagnarci qualcosa compiacendo la lobby delle armi. Hiroshima e Nagasaki non facevano parte del piano studi dell’attuale maggioranza. Come la Costituzione italiana del resto.

Il pacifismo è una visione del mondo e della risoluzione dei conflitti attraverso il dialogo, la negoziazione e un rigetto della guerra senza se e senza ma. Per questo sulle pagine di molti giornali e nei talk show televisivi spesso siete tacciati di essere al servizio di Putin o di Hamas…
Prima ancora di una questione pacifista, in Italia esiste una questione “informazione”. Non voglio usare mezze parole pur nella delicatezza dell’affermazione. Ma del resto se il livello di libertà di stampa nel nostro paese è più o meno al 47esimo posto, qualcosa vorrà pur dire. In questo contesto di scontro perenne tra bolle mediatiche, dove ad avere la meglio è sempre la stampa conservatrice e reazionaria, banalmente perché hanno più soldi, posso preoccuparmi di essere denigrato o potenzialmente infangato di volta in volta da quotidiani e media nati quasi esclusivamente per fare ciò e per alimentare un quotidiano fatto di percezioni più che di realtà? No, non mi preoccupo più di tanto di questo ma piuttosto tocca denunciare quanto l’editoria nostrana è di fatto nelle mani di qualche potente famiglia con grandi interessi per ciò che fa o non fa lo Stato, subendone costantemente i ricatti e a sua volta ricattando. Mi pare sia cosa ormai ben nota quella di un noto imprenditore/editore che siede in Senato nei banchi della maggioranza di governo e che usa i profitti della sua attività imprenditoriale, finanziata quasi interamente dal sistema sanitario pubblico, per mantenere tre importanti quotidiani a caratura nazionale, usati come clave politiche quando serve. Non lo dico evidentemente io ma le aule dei tribunali. Il pacifismo italiano, come dicevo prima, ha radici antiche e, ad essere sinceri, ha un altro tipo di problemi, a cominciare dall’incapacità di intercettare le nuove generazioni che in questi mesi si sono mobilitate a supporto di Gaza ad esempio. Attenzione, intendo dire che loro sono attori di questo nuovo pacifismo ma stentano a sentirsi movimento collettivo e vivono una ancora troppo forte segmentazione che, invece, i movimenti che hanno interpretato (o provato a farlo) gli anni ‘80 e ‘90 fino ad oggi hanno fatto. Non perché più bravi o intelligenti, ma perché la politica c’era ed era fortemente riconosciuta come strumento di emancipazione. Ma su questo versante vedo e percepisco molti segnali positivi e una crescente consapevolezza. Dobbiamo prepararci noi vecchi; se prenderà spazio e corpo potrebbe spazzare vecchi riti e vecchie modalità, ma penso che in ogni modo sarà salutare per i nostri tempi e per il nostro futuro.

L’Arci è da sempre al fianco dei più indifesi tra gli indifesi. Tra questi, i bimbi costretti in carcere dove le madri sono detenute.
Tom Benetollo ci avrebbe ricordato che noi stiamo dalla parte buona della vita. Ce la siamo scelta con convinzione e di questi tempi ce la teniamo stretta perché dà un senso al nostro stare insieme. E la parte buona di questi tempi è quella delle contraddizioni, delle difficoltà, della resilienza e della resistenza a questi tempi bui e, soprattutto dalla parte della cultura accessibile e fruibile da tutte e tutti. Dalla parte di chi non si arrende nel ricercare alternative a questo mondo ingiusto e in guerra. Dalla parte di chi è dimenticato volutamente in carcere e dalla parte dei loro familiari che subiscono pene durissime ma non hanno mai commesso reati. “Siamo in direzione ostinata e contraria” ci avrebbe detto Don Andrea Gallo, fondatore della comunità di San Benedetto e figura per me fondamentale dal G8 di Genova in poi. E lo siamo da tempo come in questi mesi, ad esempio, con la campagna nazionale sul nostro 5×1000 e con una raccolta fondi parallela dedicata al sostegno delle famiglie di Gaza che sosteniamo già da aprile, anticipando i soldi che inviamo all’Associazione Rec (Remedial education center). Rec è una realtà della società civile palestinese con cui Arci collabora da decenni, che ha una lunga tradizione di lavoro in ambito educativo. Prima delle interruzioni delle attività dovute alla recrudescenza del conflitto, Rec lavorava per i diritti dei bambini e degli adulti intorno a loro, come insegnanti e familiari, occupandosi in particolare di coloro che avevano vissuto traumi successivi alla guerra, che avevano difficoltà di apprendimento e disabilità o che vivevano situazioni familiari economiche disagiate. Non potendo essere fisicamente lì con loro abbiamo deciso di attivarci con il sostegno a distanza delle famiglie come facemmo negli anni ‘90 con il progetto Salam e i ragazzi dell’Ulivo. Ricordando pratiche e attività che hanno fatto la differenza senza mai dimenticare i protagonisti di quella stagione e di quelle idee coraggiose come il compianto Renzo Maffei, compagno e guida illuminata del nostro rapporto con il popolo palestinese. A lui voglio dedicare oggi questo nostro nuovo impegno dalla parte della giustizia e del diritto.