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“Noi, schiavi lavapiedi dal Burkina Faso all’Italia: salvi solo grazie a un’Ong tedesca”

Foto: Pietro Bertora

Foto: Pietro Bertora

Ishar: Ho 24 anni e vengo dal Burkina Faso. Sono andato all’università. I miei genitori facevano il possibile per mantenermi, con l’agricoltura e l’allevamento. Ma poi hanno dovuto vendere il bestiame. Volevo studiare fino alla laurea. Poiché mi piaceva molto la scuola, nella mia famiglia sono stato il “prescelto” per andare in Europa e gli altri sono stati lasciati indietro. La crisi del 2015 nel mio Paese e lo sfollamento interno, ci hanno spinto a partire.

Amir: In Burkina Faso ero uno studente. Dopo la scuola superiore sono stato costretto a interrompere la scuola per aiutare la mia famiglia, che è rimasta in Burkina Faso. Dovevo partire. Ci abbiamo provato diverse volte. L’ultima volta, per fortuna, ha funzionato.

Ishar: Ci sono Paesi in Africa che non sono in crisi, ma non si può andare lì. Una volta arrivato lì, la gente non ti guarda nemmeno. Forse in Europa potrebbe essere meglio. Sappiamo che partire è rischioso. Ma chi non ci prova non ottiene nulla nella vita. Sappiamo che è molto rischioso, ma non abbiamo scelta. Se non hai intenzione di rimanere a casa a piangere, devi alzarti per correre un rischio. Se Dio ti ha aiutato, tu aiuterai gli altri. Per prima cosa, volevamo attraversare la Tunisia. Dal Burkina Faso alla Tunisia ci abbiamo messo un mese. Quando si lascia il Burkina Faso, si deve prima attraversare il Niger con dei camioncini attraverso il deserto del Sahara. Abbiamo anche trascorso una settimana in Algeria. Lasciata l’Algeria, abbiamo oltrepassato il confine con la Tunisia. Alcuni nel nostro gruppo sono stati rimpatriati, mentre in 60 (su 80) siamo rimasti in Tunisia. Poi ho detto: “Non abbiamo scelta. Dobbiamo provare ad attraversare”. Siamo saliti su una barca con altre 40 persone. La barca aveva un motore troppo debole, quindi non potevamo navigare. La Guardia nazionale tunisina ci ha catturati in acqua.

Amir: Siamo stati catturati, abbiamo passato due giorni in prigione in Tunisia prima di essere portati in Libia.

Ishar: Siamo stati portati in Libia, in una prigione. Siamo stati minacciati ci hanno estorto dei soldi. Abbiamo pagato 3mila dinari per essere rilasciati. Ci hanno portato a casa di un libico. Lì c’erano delle galline grandi e alberi ovunque. Ma non avevamo nulla da mangiare. Andavamo a lavare loro i piedi e tutto il resto. E poi pulivamo il giardino. Innaffiavamo le piante che erano in casa. Solo per poter dormire. Non era un lavoro. Poi due burkinabé che vivono in Libia ci hanno visto dormire per strada e cercare un lavoro, così ci hanno accolto per una settimana per avere cibo e una doccia. Parlavamo la stessa lingua: mòoré.

Amir: I libici ci trattano come animali. Se non fosse stato per alcuni “fratelli” che ci hanno accolto lì, penso che a quest’ora non saremmo vivi. Procurarsi il cibo è molto difficile. Non c’è lavoro. Quando le guardie ti catturano, ti mandano in una prigione. Lì ti picchiano finché non paghi di nuovo. Non c’era niente da mangiare. Piangevamo spesso.

Ishar: Durante quei cinque mesi in Libia abbiamo sofferto molto. Lì non c’è sicurezza: sentivamo sempre degli spari. Non puoi uscire, se fai anche solo 100 metri devi metterti a correre per salvarti. Non c’è posto per cercare un lavoro. Non si riesce a trovare un lavoro normale; spesso dicono che ti pagheranno 100 dinari, ma poi te ne danno 20. Non hai scelta. Se parli, ti picchiano. Quindi, spesso, lavori ma non ti pagano. Non sapevamo con chi parlare, a chi chiedere aiuto e così abbiamo deciso di andarcene.

Amir: Abbiamo cercato di trovare una soluzione. Prima di attraversare il mare abbiamo fatto passare un po’ di tempo perché sapevamo che i rischi erano molti. Dovevamo essere ben informati se una barca stava partendo. Questa volta abbiamo impiegato molto tempo per trovare una buona barca.

Ishar: Siamo salpati da Tripoli. Non abbiamo mangiato per una settimana prima della partenza, mentre le altre persone con cui abbiamo viaggiato avevano acqua e biscotti. Siamo partiti. Abbiamo chiamato al telefono una persona del Camerun che conoscevamo in Libia. Eravamo ancora in contatto, ma era un telefono normale, non un telefono satellitare, e poi la batteria si è scaricata.

Ishar: Abbiamo perso un pezzo del motore e da lì in poi ci siamo praticamente persi. Quando è arrivata la sera, ci siamo sdraiati e abbiamo iniziato a pregare perché non potevamo fare altro.
Cercavamo le navi, ma non riuscivamo a vedere nulla. A quel punto volevamo solo essere al sicuro, indipendentemente da chi ci avrebbe salvato. Il mare era pazzesco, con molte onde. Quando abbiamo visto la vostra nave [Humanity 1], all’inizio abbiamo pensato che fosse la Guardia costiera libica. Ma quando abbiamo visto arrivare i gommoni veloci, abbiamo capito che saremmo stati salvati. È stato un momento di gioia. Un piccolo paradiso. Eravamo molto felici. Una volta arrivati in Europa, potrò fare qualcosa per aiutare la mia famiglia.

Amir: Possiamo ringraziare Dio per essere qui ora a bordo. Siamo tutti uguali. Il mio sogno è quello di poter aiutare la mia famiglia, e se è possibile anche di sostenere chiunque altro abbia bisogno di aiuto. Vorrei sapere: la vita in Europa sarà come in Libia?

*Due naufraghi salvati dalla nave Humanity 1, nomi di fantasia