X

Intervista a Susanna Camusso: “Salari aumentati? Solo la Grecia peggio di noi, ma la sinistra è tornata”

La lotta alle diseguaglianze. Pace e giustizia sociale. L’orizzonte di una sinistra che non si accontenta di un buon governo dell’esistente. L’Unità ne discute con Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil dal 2010 al 2019, oggi senatrice e membro della Direzione nazionale del Partito democratico. Ha scritto “Facciamo pace. Una guerra, tante guerre”, edito da Striscia rossa. Una critica delle guerre da sinistra, di stringente, drammatica attualità.

“La scelta è semplice: salario minimo o schiavismo legale”. Così l’Unità titolava nei giorni scorsi in prima pagina, a proposito di questione sociale. È una forzatura giornalistica?
Ritengo difficile definirla una forzatura se penso a Satnam Singh, ucciso sotto caporale. È frustrante sentir negare che paghe da tre, quattro euro siano sfruttamento, ma se a questo aggiungiamo il ricatto del sequestro dei documenti o i vincoli per ottenere il permesso di soggiorno diventa evidente che si è di fronte a forme di schiavitù. Per i lavoratori sotto caporale serve il salario minimo, ma servono anche l’applicazione della legge 199 e la cancellazione della Bossi-Fini. Non possiamo dimenticarci che il tema dei bassi salari, del lavoro povero, dello sfruttamento, riguarda vari comparti dell’economia, compresi quelli indicati come “lavoro del futuro”. È una vergogna che la destra usi la forza dei numeri per impedire l’approvazione di una legge che l’opposizione continuerà a riproporre. Sono molte le ragioni per farlo. Ne ricordo tre: il salario minimo contrasta il lavoro povero e ridà così dignità al lavoratore e al lavoro stesso. È essenziale per l’autodeterminazione delle lavoratrici, le più colpite dal lavoro povero, con la duplice conseguenza di non poter essere autonome e di non veder riconosciuto il valore del proprio lavoro. Ed infine il modello economico e di sviluppo del paese. Se proseguono queste forme di evasione contrattuale e fiscali, di concorrenza sleale, e con esse un’idea di sviluppo basata sui bassi salari e sull’irregolarità, non avremo investimenti ed innovazione, si impoverirà il paese.

Si grida alla crisi, ma i giornali di destra sbandierano i dati Ocse sull’aumento dei salari italiani.
Leggendo davvero i dati Ocse, il merito dell’aumento del reddito delle famiglie va riconosciuto alla contrattazione collettiva e al rinnovo dei grandi contratti del privato, mentre non si può dire altrettanto dei contratti pubblici. Giorgia Meloni non perde il vizio di attribuirsi meriti non suoi, quando invece ostacola la diffusione della contrattazione e il salario minimo. Purtroppo, all’Italia mancano più di 5 punti per tornare ai livelli del 2007, lasciandoci in compagnia della sola Grecia.

Una sinistra che non pone al centro del suo agire temi cruciali come la difesa della dignità del lavoro, la pace senza se e senza ma, ha ancora legittimità a definirsi tale?
Resto convinta che l’incapacità, negli anni scorsi, della sinistra politica di opporsi alle teorie e alle pratiche liberiste, l’aver accolto l’idea che andava deregolato il lavoro, che andassero cancellate fantomatiche rigidità, in nome di una ipotetica redistribuzione dei diritti che ne nega l’universalità, sia all’origine dell’allontanamento del mondo del lavoro dalla sinistra. Se poi aggiungiamo che la promessa redistribuzione non solo non si è realizzata ma che i giovani continuano a vivere precarietà ed emigrazione, alla sfiducia innescata allora si aggiunge la constatazione quotidiana degli errori di quelle politiche. So che a queste considerazioni vengono contrapposti i numeri degli occupati, che certo sono cresciuti, ma monte ore lavorate e monte salari sono diminuiti.
Una polarizzazione tra chi lavora troppo e chi lavora poco che accresce i divari e blocca sempre di più l’ascensore sociale. Se non fosse sufficiente, dovremmo ricordare che le crisi economiche e l’esplodere dei conflitti internazionali sono stati pagati prevalentemente dai lavoratori. Quel processo di crescita di una classe media, di riconoscimento di diritti universali, di riduzione delle diseguaglianze favorito dal boom economico e dalle grandi riforme degli anni ‘70, si è sgretolato dagli anni ‘80 in poi, culminando negli anni 2000. Da qui la solitudine del mondo del lavoro, processi crescenti di marginalizzazione sociale, che si sono tradotti in astensione dal voto, non riconoscimento della rappresentanza. Per questo bisogna ripartire dal contrasto alle diseguaglianze: siano esse sui salari, sulla salute o sulla cittadinanza. Negando la separazione tra diritti sociali e civili, che devono invece procedere affiancati. Questo processo si è avviato nel Partito democratico dal congresso in poi e trova risposte comuni importanti delle opposizioni. La ricostruzione della fiducia, del riconoscersi rappresentati, non è ovviamente immediata. Bisogna riprendere con forza l’art.3 della Costituzione. Di fronte a una destra che nega l’universalità dei diritti, anzi che colpevolizza e marginalizza i più deboli, applicare la Costituzione è una risposta necessaria, un programma. Bisogna anche sapere che la sinistra si nutre di ideali. Tra questi la pace è sicuramente quello a cui guardano con attenzione le giovani generazioni, che non si riconoscono in una politica estera che preferisce le armi ai negoziati di pace, in una lettura del mondo che distingue vittime di serie A e vittime da ignorare.

C’è chi accusa la Cgil, di cui lei è stata Segretaria generale, di un eccesso di protagonismo con i referendum promossi.
Quando non si trova rappresentanza nelle politiche e nelle scelte che incidono sulle condizioni di lavoro, giustamente la Cgil, ma direi le organizzazioni sindacali confederali, cercano le strade per rideterminare condizioni migliori e riconquistare diritti cancellati. Lo fece la Cgil di fronte al job act con la Carta dei Diritti universali dei lavoratori e delle lavoratrici e i referendum. Ciò che non si mette nel giusto rilievo è l’attacco alla rappresentanza, l’ostilità al ruolo delle parti sociali e dei corpi intermedi. Serve una ripresa della contrattazione, la capacità di trovare accordi che costringano il governo a misurarsi con le scelte e le proposte che vengono dalla rappresentanza sociale. La Confindustria degli anni scorsi ha scelto di indebolire le relazioni sindacali e gli effetti si son visti anche sulle politiche industriali. Mi auguro che la nuova leadership si interroghi insieme alle organizzazioni sindacali su questo. Se il salario minimo è una legge necessaria, non è sufficiente ad affrontare la questione salariale nel suo insieme, se non ci si misura con la contrattazione, con i diritti necessari ad affrontare la transizione digitale, il contrasto al cambiamento climatico e la riduzione degli orari di lavoro. Non è sufficiente la strada referendaria e bisogna sempre rispettare i confini, oltre a salvaguardare l’autonomia. Ciò che non serve è coltivare l’illusione di sostituirsi alla politica.

Si vince uniti, è una legge della politica. Ma l’unità senza la condivisione di punti discriminanti sul terreno sociale, fiscale, dei beni comuni, sulla guerra, ecc., non si riduce allo stantio dibattito sul “campo largo”?
Aver scelto la divisione nel 2022 ci ha portato al governo della destra, di questa destra che non fa i conti con la sua storia e fatica a riconoscersi nella Costituzione antifascista. Una responsabilità che non si può negare o scordare. Il tema non sono i nomi o le formule che troppo spesso affascinano le cronache. Per questo condivido molto la scelta della Segretaria Pd: non veti, ma la costruzione di proposte comuni, che affrontino i problemi del paese. Un’opposizione comune, costruzione dell’alternativa nelle proposte concrete. Le differenze, che ci sono indubbiamente, possono e debbono essere superate costruendo soluzioni comuni e anche facendo tesoro del lavoro di opposizione che facciamo in Parlamento, che deve essere visibile e dialogare con la società.

A Gaza si sono superati i 40mila morti, più della metà sono bambini e donne. Ma la mattanza sembra non far più notizia, mentre la guerra tende a investire l’intero Medio Oriente.
A Gaza, ma vorrei dire anche in Cisgiordania, si sta consumando il fallimento dell’umanità e la sconfitta delle democrazie occidentali. “Cessate il fuoco subito”, l’appello che viene dai giovani e dalle mobilitazioni in tutto il mondo è l’imperativo che a partire dall’Occidente dovrebbe essere tradotto in atti concreti che lo impongano. Sono convinta che non si aiuti Israele e la lotta al terrorismo se non si agisce nel rispetto delle regole internazionali, se non si applica lo stato di diritto – vediamo le notizie che giungono dalle carceri israeliane coerenti ai peggiori regimi, non alla democrazia – se anche solo si evoca l’idea di poter cancellare o deportare un popolo. Silenziare le devastanti cronache su Gaza o sulla Cisgiordania è un elemento importante di quella politica del doppio standard sul valore delle vite, dell’indignazione a gradi alterni che sta caratterizzando un Occidente che non ha la forza di difendere i suoi stessi valori.

Due anni, a settembre, di governo Meloni. Un bilancio?
Il record di decreti omnibus e voti di fiducia sono la prova provata che non erano pronti, come lo è il perenne vittimismo che caratterizza le loro dichiarazioni, come se fosse sempre il loro primo giorno. Eppure, hanno ambizioni faraoniche: si immaginano di poter scardinare la Costituzione in tre provvedimenti. Il primo, l’autonomia differenziata, ha già determinato un’assoluta novità: partita la raccolta firme per il referendum, basta annunciare un banchetto che si forma la fila. Questo sia per la divisione e le diseguaglianze ulteriori che produrrebbe, sia per i danni sottesi alla frammentazione di regole essenziali per l’economia e l’industria, per l’energia, commercio estero ecc. Secondo, un progetto quello del premierato, che già non riesce neanche più a convincere loro stessi. Infine, sulla giustizia millantano successi che temo porteranno solo a nuove infrazioni europee. L’Europa mantiene gli impegni sulle rate del Pnrr, ma gli investimenti sono lenti, pochi, non affrontano i divari sociali, e il diluvio di commissari, cabine di regie, allargamenti delle direzioni ai ministeri – tutti nuovi record – dimostrano solo la volontà di occupare ogni minimo spazio, non una progettualità. Le fiducie ripetute nascondono le divisioni, i decreti puntano a dare l’idea che tutto sia emergenza e non danno nessuna soluzione vera, come la siccità dimostra. Solo una continua opera di distrazione dai problemi, e quel che rimane è l’intolleranza di chi ha bisogno di indicare colpe e devianze perché non ha le parole per rispondere ai bisogni del Paese.