Partiamo da un dato concreto: l’Università italiana ha bisogno di almeno 45mila nuovi professori di ruolo (associati e ordinari) da espletare nell’arco di quattro o cinque anni e, per questo, occorre il bando immediato di posti, con fondi stanziati dallo Stato. Nel frattempo, dovrebbe esser prevista la proroga interna, a domanda e su fondi nazionali, di tutti gli attuali precari, fino all’espletamento dei concorsi.
Questa è la prima vera esigenza del mondo dell’Università, ma, ovviamente, anche il sistema di reclutamento dovrebbe prevedere delle modifiche radicali e sensate, che guardino maggiormente alla qualità delle produzioni scientifiche (tema controverso e complesso, spesso anche poco esaminato dagli addetti ai lavori, che si occupano dell’Agenzia nazionale di Valutazione del sistema universitario e della ricerca, Anvur). In questi giorni, intanto, come noto, sono parecchi i pareri contrari al ddl presentato dalla ministra Bernini, la quale, nel suo testo, ha previsto una possibile riforma dei contratti della ricerca. Bisogna riconoscere alla ministra Bernini che, perlomeno, ha sollevato il tema del precariato universitario (da tanti citato a parole e spesso, ma sconosciuto nei fatti).
Tuttavia, proprio per cercare di accompagnare l’iter di questo testo ministeriale, è opportuno segnalare, con urgenza, gli errori contenuti e alcuni fraintendimenti da correggere, nella speranza che vengano ascoltate maggiormente le voci dei ricercatori, che, peraltro, rendono – nei diversi settori – davvero d’eccellenza questo Paese, abituato a utilizzare il termine “merito” senza una vera sostanza. Con il provvedimento appena presentato, solo in apparenza si ampliano gli strumenti delle Università, degli enti pubblici di ricerca per inquadrare professionalmente le diverse figure, all’interno del sistema della ricerca, con tutele crescenti. Si prevedono, inoltre, forme di collaborazione da parte di studenti durante il corso di laurea per un massimo di 200 ore l’anno. Utili davvero? Si dovrebbero introdurre, poi, due tipologie di borse di ricerca: una junior, destinata ai laureati magistrali, una senior per i dottori di ricerca. Arriva poi (forse) il contratto “postdoc” e dovrebbe essere introdotta la figura del “professore aggiunto” su chiamata diretta (formula, peraltro, utile e fisiologica, da incrementare se davvero basata sulla qualità). Questo, intanto, il mosaico di contratti, contrattini e paghette.
Siamo sicuri che questi eventuali provvedimenti potrebbero dare dei risultati incoraggianti o, invece, si rischia soltanto di aumentare, ancor più, gli anni di precarietà della legge Gelmini, portandoli da 11 persino a 15? Sarebbe un effetto drammatico e poco degno! Intanto la Cgil segnala che se questo ddl dovesse davvero essere approvato, si moltiplicherebbero, con effetto immediato, le figure precarie (e conseguentemente senza diritti) nell’università italiana, incrementando, in maniera significativa, i tempi di ingresso di ruolo. Che cosa ne verrebbe fuori se non un gran minestrone di precariato, che rischia di peggiorare non solo le vite personali dei ricercatori, ma di incidere negativamente sulla stessa qualità della ricerca italiana, sempre più composta da percorsi di lavoro di scarsa qualità? È accettabile che nel nostro Paese ci sia un percorso così poco tutelato per i ricercatori? La Bernini ha precisato: «…partirà un confronto con le parti sociali e attiveremo al Mur un osservatorio, di cui faranno parte tutte le rappresentanze coinvolte, per valutare l’impatto di queste norme».
È una buona notizia, ovviamente, ma sin d’ora è necessario segnalare alla ministra come questo meccanismo non sia affatto una “cassetta degli attrezzi”, bensì – forse – una semplice toppa su dei buchi strutturali, che non riescono a superare l’imbuto creatosi nell’accesso ai canali del pre-ruolo per la carriera accademica. Anche semplicemente analizzando la questione degli assegni di ricerca, ci si renderà conto di come questa tipologia di contratto avrebbe dovuto esser già superata dalla legge 79 del governo Draghi, il quale auspicava – efficacemente – un’unica figura precaria di contrattista della ricerca, prima di entrare in figure più stabili e di ruolo. Questa attuale condizione, spesso mascherata dalla flessibilità, è solo un modo per rendere il lavoro della ricerca una professione scarsamente tutelata, piena di porte senza sbocchi, piena di scritti scientifici basati solo sulla quantità. Non ci si può abituare a una ricerca a basso costo!