La testimonianza

Storia di W., profugo-ragazzino di 15 anni: “I libici non mi hanno ucciso perché gli servivo come interprete”

“I libici torturano i prigionieri facendo sentire al telefono alle famiglie le urla, per farsi mandare soldi. Ma non sanno l’inglese, io traducevo”

Cronaca - di Angela Nocioni

20 Agosto 2024 alle 13:00

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Storia di W., profugo-ragazzino di 15 anni: “I libici non mi hanno ucciso perché gli servivo come interprete”

Una bambina di 6 anni quando ha visto questa foto ha detto: “Questo qui è un adulto, non è un ragazzino. Non li vedi gli occhi?”. Invece ha 15 anni, dal Sudan è partito da solo 5 anni fa. Lo chiameremo W. A 10 anni il papà gli ha messo in mano tutti i soldi che aveva per dare a quel bambino così sveglio, che parlava già inglese, la possibilità di cercare un futuro in Europa. Lui, di quel papà che l’ha lasciato partire verso nord, parla con la gratitudine di un adulto. È notte. W. corre sul ponte della nave che l’ha salvato piena di naufraghi appena issati da gommoni alla deriva al largo di Tripoli. Lui, che fino a 48 ore fa vedeva la morte per stenti, in mezzo al mare, stipato in una barca alla deriva senza più motore, ora corre. Fa lo slalom tra le coperte grigie in cui sono avvolti i maschi adulti a poppa. Non ha sonno. Vuole parlare.

«Mia madre è finita in un campo profughi, l’ultima volta che sono riuscito a parlarle dalla Libia è stato 4 anni fa», dice. «La voglio andare a prendere, la voglio ritrovare, c’è qualcuno in Europa che mi può aiutare a trovarla? Voglio lavorare, mandarle soldi perché possa comprarsi l’acqua, sennò lì non può bere e poi andarla a salvare. Poi insieme a lei voglio tornare in Sudan, salvare i miei fratelli, cercare il mio papà e salvare anche il Sudan. Nel frattempo io voglio lavorare in una nave che salva le persone in mezzo al mare, posso farlo? Avete visto come so tradurre in arabo dall’inglese? Serve qui un interprete, non è vero?». Non sono passati nemmeno due giorni da quando W. è stato tirato su, disidratato e fradicio di combustibile e acqua di mare, dai soccorritori volontari e lui questo chiede. Vuole lavorare.

L’inglese l’ha salvato nei campi libici dove è finito due volte. «Non mi hanno ucciso perché gli servivo per tradurre. I libici prendevano i prigionieri e li torturavano, poi chiamavano col telefono del prigioniero la famiglia per fargli sentire le urla, ma non sanno l’inglese e non sapevano dire nulla. Quindi gli servivo, facevo da interprete tra l’arabo e l’inglese». Questo ha visto. «Mi hanno messo in prigione quando mi hanno trovato in mare su un gommone. Io la seconda volta sapevo già tutto, sapevo che dovevo stare molto attento a non impazzire perché se vedono che impazzisci o ti sparano in testa oppure ti portano nel deserto e lì muori di sete. Allora io quando sentivo che non sopportavo più chiudevo gli occhi e pensavo, pensavo, pensavo, così mi ricordavo che sapevo pensare e non impazzivo». Mostra come faceva. Si accoccola con le ginocchia a reggere la fronte e la testa stretta tra le mani ad occhi chiusi. “I’m thinking, I’m thinking, I’m thinking. I’m alive” ripete.

W. appena salito a bordo della nave di soccorso non ha capito che era salvo. S’è proposto subito di tradurre dall’arabo all’inglese con i naufraghi che parlavano solo arabo, e mentre studiava la situazione a bordo si è preoccupato di far vedere all’equipaggio cosa sapeva fare. Spiega le ragioni della sua intraprendenza: «Al mondo le persone sono tanto diverse. Vedi le dita di questa mano?», domanda. Apre la mano e la mette sotto la luce arancione della lampada riscaldante accesa a poppa. «Le persone sono tutte diverse come le dita della mano, i libici quando ci hanno preso in mare ci hanno imprigionato, menato, mi davano un dito d’acqua sporca e poi ci tiravano un piatto per tutti. Io che sono più piccolo non mangiavo quasi mai. Mi facevano dormire per terra in un angolo pieno di pidocchi e se dicevo di no mi menavano. Voi no, mi avete dato subito tanta acqua, tutto il tè nero con lo zucchero che voglio, mi fate da mangiare tre volte al giorno sui piatti puliti, mi avete dato questa tuta nuova, siete diversi».

Provo a dire che quelli erano carcerieri e noi persone che lo hanno soccorso per aiutarlo. Mi interrompe: «Sì, io la differenza ora l’ho capita, ma che ne sapevo all’inizio chi eravate voi?». Del Sudan non vuole raccontare. Si capisce soltanto che la sua famiglia non era poverissima, probabilmente borghese, che anche i suoi genitori parlano altre lingue oltre all’arabo e che nella città dove viveva erano molto temuti degli uomini che non si potevano nemmeno nominare e allora lui e i suoi amici per riferirsi a loro, considerandoli forti, troppo forti, imbattibili, li chiamavano “l’Arsenal”, come la squadra di calcio.

20 Agosto 2024

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